Immigrato si da fuoco aeroporto Fiumicino: commenti Il Giornale

Storie e Notizie N. 867

C’era una volta un ragazzo di diciannove anni.
No, perché a diciannove anni, uno è un ragazzo.
E’ così, vero?
C’è pure su Google un ragazzo diciannovenne, circa quattrocentomila risultati.
Ebbene, si dia il caso, lo sfortunato caso, che il ragazzo diciannovenne fosse Ivoriano, ovvero originario della Costa d’Avorio.
E fin qui, difficile giustificare l’aggettivo.
Sfortunato, intendo.
Allora, giusto per chiarire, aggiungo che il ragazzo diciannovenne Ivoriano si trovava in Italia.
Perciò, per i più era un immigrato. O un extracomunitario.
Una parola sola e tutto diviene più facile per il cittadino medio.
Ora, c’è da dire che l’aggettivo di cui sopra aveva ulteriori giustificazioni: il ragazzo diciannovenne Ivoriano, alias l’immigrato, era in procinto di essere espulso.
E cosa fece il ragazzo diciannovenne Ivoriano, in poche parole l’immigrato?
Decise di cambiare la sceneggiatura della sua triste storia.
Ma non per renderla migliore, se non altro dal suo punto di vista.
Che so, fuggire all’estero, oppure diventare in fretta forte a calcio per essere comprato dal Milan, farsi eleggere in parlamento, dipingersi di bianco e imparare un dialetto qualsiasi, ecc.
Niente di tutto questo.
Il ragazzo di diciannove anni Ivoriano, per molti solo l’immigrato, una volta giunto all’aeroporto di Fiumicino e subito prima di essere imbarcato sul primo aereo per l’Africa si diede fuoco.
Letteralmente, eh?
Questo non è un film e neanche un racconto inventato, in Inglese fiction.
E’ la realtà, succede sul serio.
Proviamo ad immaginare quali sentimenti maturino nella vostra pancia, quali emozioni alberghino nel vostro petto, che tipo di pensieri invadano la vostra mente per spingervi a consegnare il vostro stesso corpo alle fiamme.
Un corpo di un ragazzo diciannovenne Ivoriano in Italia, per quasi tutti l’immigrato, condannato ad essere espulso.
Adesso immaginiamo di indossare quel corpo anche solo per un istante, per una frazione di secondo, come se fosse un vestito e una volta ricoperti da quella pelle olivastra tentiamo solo per un rapido attimo di affacciarci in quella pancia, in quel petto, all’interno di quella mente.
Per sentire e capire.
Si potrebbe intuire qualcosa, dal comodo della propria poltrona o divano.
Immensa disperazione, indicibile sofferenza, totale perdita di senno, ma sarebbero solo parole.
Solo con quel vestito addosso per un tempo significativo, forse, si potrebbe veramente sentire e capire.
E finalmente smetterla di insozzare le orecchie e gli occhi altrui con parole senza senso.
Ovvero con un senso troppo ignobile per essere ripetuto.
Un senso che raffigura creature inquietanti per qualsiasi ragazzo di diciannove anni, Ivoriano o meno, immigrato o doc.
E per chiunque viva a stretto contatto con individui che di umano non hanno più nulla...

  




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