Palestinese morto sotto tortura: Arafat Jaradat e il terzo figlio

Storie e Notizie N. 873

Dalal, la moglie del detenuto deceduto, aspetta il suo terzo figlio per giugno…

Palestina, Israele.
Israele, Palestina.
E i morti.
Questa triste, schifosa e invisibile storia è sempre il racconto di quel che non c’è, che si sa, ma nessuno può dire, che è lì, dove tutti sanno che esiste e respira, ma che non ha abbastanza voce per farsi ascoltare.
E’ la storia di mio padre e soprattutto la mia, il terzo figlio.
Mio padre Arafat Jaradat è morto per aver tirato un sasso.
Per le torture, dicono alcuni.
Per infarto, dicono i suoi carcerieri.
Israele, Palestina.
Palestina, Israele.
E’ il solito vergognoso giochetto delle due carte con il quale un intero popolo scompare ogni giorno di più come sabbia portata via dal vento.
Un vento artificiale, fasullo, azionato in silenzio da uno dei tanti marchingegni dell’ACME.
Ve la ricordate, la scritta sulle diavolerie con cui Will Coyote cerca di catturare Beep Beep?
Era la casa madre delle invenzioni con la quale il primo si sforza di migliorare le proprie capacità e raggiungere la preda.
Ovvero falsare le regole del gioco.
Della natura.
Palestina, Israele.
Israele, Palestina.
Due facce di due ben distinte medaglie, due, non una medaglia d’oro e un pezzo di sterco, dal quale si ha il sacrosanto diritto di difendersi.
Mi sorella Yara, 4 anni, e mio fratello Muhammad, 2 anni, sono anche loro due, ancora per poco.
A giugno vedrò la luce del sole che ci bagna tutti su questa terra stritolata da un pitone che non ha abbastanza coraggio di guardarla in faccia mentre compie il suo delitto.
Ma non troverò un volto accanto a Dalal, mia madre.
Un viso di cui ho imparato a riconoscere la voce.
Inutilmente.
O forse no.
Israele, Palestina.
Sì, Israele.
E Palestina.
Cara madre, io non dimentico quella voce.
E quella voce non vuole altre morti.
La memoria richiede memoria.
La memoria è forza allo stato puro, l’essenza del ricordo scorre nel sangue di chi apre gli occhi senza dimenticare quel che ha capito con le palpebre abbassate.
Che la verità della terra che calpestiamo è tutta lì, nel racconto che viene omesso, nei colori che vengono confusi tra le pieghe dell’ombra creata dal paese più alto tra noi.
Come la vita di un figlio che non c’è.
Per ora.
Da giugno in poi sarà tutta un’altra storia.
Te lo giuro sulla mia vita.
 



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