Storie sulla rabbia: il vestito nuovo di Sheikh

Storie e Notizie N. 915

Non sono qui per fare polemiche.
Non so neppure cosa voglia dire questa parola.
Come potrei, se ho poco più di tre anni?
Perché mi chiamo Sheikh, vivo a Savar, nella regione di Dhaka, nel Bangladesh e questo è un sogno.
Ovvero è quel che vorrò dirvi allorché avrò sufficienti maturità ed eloquio per far sentire le mie ragioni.
Nel frattempo, mi affido a una storia.
Ah, che fortuna che ci siano le storie che, per quanto voci improvvisate e talvolta modeste, parlano e gridano a nome di chi non ne ha facoltà.
Non ancora.
La mia, poi, è una vicenda internazionale, nota e diffusa in tutto il mondo.
Come le marche famose, Mango, Primark e Benetton.
Come i Jeans.
Avrete sentito parlare del crollo del Rana Plaza e dei morti dispersi tra le macerie.
Che grande invenzione, i Jeans, non credete? Un paio di stracci blu ed ecco la divisa mondiale.
Che grande invenzione è stata ancor di più quella dei Jeans strappati, invecchiati e sbiancati.
Si fa con la sabbiatura, sapete? Ne ha parlato di recente il Tg24.
Ma la vera straordinaria trovata è stata quella della moda, ovvero l’illusione che si è impadronita del mondo dell’abbigliamento.
Eh, per forza di un illusione si deve trattare, in altre parole di un incredibilmente potente sortilegio, capace di accecare occhi e cuori di miliardi di persone.
Beh, forse miliardi no, diciamo milioni.
Perché i miliardi siamo noi.
E mio padre.
Sì, mio padre, l’uomo ritratto nella foto che mia madre tiene stretta tra il pollice e l’indice a favore

dell’obiettivo della fotocamera.
Che è poi il vostro occhio che guarda noi, mia madre ed io, ora, seppur orbati dell’amore di mezzo.
Già, amore di mezzo, marito e padre, energia vitale tra moglie e figlio, fuoco fondamentale, laddove sia l’unica fonte di sostentamento per una famiglia.
Povera? D’accordo, povera, come preferite.
Come vi ho detto, per ragioni prettamente anagrafiche, sono poche le parole che conosco, ma sono belle, le amo come me stesso.
E una di esse è divenuta da un giorno all’altro solo il titolo di una fotografia attaccata al muro, in camera di mamma.
Padre, o meglio quello alto che, quando torna dopo aver lavorato tutto il giorno per permettervi di comprare abiti che riempiano il vuoto della vostra personalità, mi alza da terra e mi bacia sulla fronte, pizzicandomi con i peli intorno alle labbra.
Esatto, anche barba è un termine a me ancora ignoto.
Tuttavia, le emozioni le conosco tutte. So cosa provo, anche se non ne conosco il nome.
Rabbia.
D’accordo, c’è anche il dolore.
Ma la collera monta dentro con il fragore di un palazzo di otto piani, costruito sul fango e con il fango, che crolla per la cupidigia di governanti ottusi e per la medesima avidità di cosiddetti imprenditori illuminati del mondo moderno.
Mondo che è sempre ad occidente, sia nei film come in tv.
Tutto per un Jeans?
Vale la vita di mio padre e di centinaia di altri?
Ci proverò ad andare avanti senza coltivare il rancore, anche se so che non sarà facile.
Lo devo a mia madre e a me stesso.
E perché io so che la mia serenità, la mia vita, non valgono un Jeans.
La mia pelle è il mio vestito nuovo.
Forse sarà perché non vivo in occidente.
 



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