Elezioni sul pianeta Titanic
Storie e Notizie N. 1649
La maggior parte di ciò che mi riguardi personalmente non conta, ora.
Il che vale per i miei interessi più egoistici e le mie aspirazioni più o meno lontane.
Non in questo momento, no.
Non quando ancora una volta mi ritrovo a pochi giorni dall’ennesimo momento in cui viene richiesto il mio voto, la scelta del partito, ovvero delle persone che dovranno decidere il nostro futuro come umanità, ancor prima che popoli e nazioni.
Raggiungo con estrema perplessità la finestra che dà sul mondo di fuori, reale o solo immaginato, chiudo gli occhi e vedo.
Vedo la nostra amata e al contempo maltrattata madre terra che col tempo si è trasformata in uno strano tipo di nave a forma di pianeta, la quale naviga senza vele o motore, sospinta nel proprio viaggio dal mero peso dei suoi passeggeri, portando un nome inconfondibile, inciso nel legno che separa questi ultimi dai flutti.
Titanic, già, è sufficiente la parola, per chi ha memoria e
magari un pizzico di buon senso sopravvissuto alla traversata.
A bordo sono un semplice mozzo e forse non è un caso, come non è altrettanto insolito che sia proprio nelle vesti del più sacrificabile dei membri dell’equipaggio che abbandono le mansioni preposte dalla gerarchia del mare e preoccupato per l’orizzonte che tutti noi attende raggiungo il ponte di comando.
“Signore, una parola”, esclamo con tutta la forza che nel mio affaticato corpo ancora resiste, rifiutando la resa alle ciniche sentenze del mostro chiamato realtà.
L’interessato è un capitano come molti di questi tempi, che sono tali solo sulla carta e qualche social network, ma che non hanno mai studiato la sublime arte del guidare una nave, men che meno imparato a leggere le stelle o a decifrare le rotte consigliate dai compianti disegnatori di mappamondi.
“Cosa vuoi?” domanda bruscamente, evidentemente interrotto in un partecipato sghignazzo con gli altri ufficiali.
“Capitano”, rispondo facendomi coraggio. “Abbiamo un problema.”
“Lo so bene, mozzo”, ribatte lui. “Mi hanno scelto per questo, ma con il sottoscritto nessuno degli invasori riusciranno a salire a bordo. Perché pensi abbia ordinato ai marinai di piantonare giorno e notte la nave da poppa a prua?”
Gli invasori, dice, e non posso fare a meno di pensare a quei disgraziati che galleggiano tra i flutti intorno a noi, mossi dal disperato desiderio di trarsi in salvo.
Alcuni provengono da improvvisate imbarcazioni colate a picco perché costruite con materiali di scarto di nostra fabbricazione o da noi stessi speronate.
Altri tra le onde ci sono nati e altri ancora ce li abbiamo buttati noi altri perché prima l’equipaggio, recitano le odierne bandiere, giammai la vita umana.
Una volta si gridava uomo in mare, ricordo. Ora la prima frase che viene pronunciata in questi casi è una domanda che sa di ostilità, giammai di solidarietà: è uno dei nostri?
A ogni modo cerco di farmi capire meglio dal titolare del timone.
“Capitano, scusi...”
“Sei ancora qui, tu?” fa lui ulteriormente infastidito dalla mia presenza. “Ah, ho capito. Vuoi farti un selfie con me. Bravo, sali le scalette e vieni qui, ma poi torna a lavorare.”
Di scale ne ho fatte nella mia vita, verso l’alto e spesso in basso, ma non credo esista un universo tra gli infiniti possibili in cui possa calpestare dei gradini per tale discutibile ragione. Indi per cui rimango impassibile e insisto.
“Capitano...”
“Mozzo”, bercia la versione sbagliata del mitico Achab, con il cuore e forse anche la testa di legno, al posto della gamba. “Perché scocci e non torni al tuo lavoro?”
“Non posso”, rispondo.
Non voglio e non devo, penso ma non dico mordendomi la lingua.
“Non puoi tornare al lavoro?” osserva lui. “Tutto okay. Come ben sai i miei ufficiali e io abbiamo istituito il reddito di navigazione. Goditi la nostra magnanimità e non rompere.”
“Ma il problema ci sarebbe comunque, capitano”, esclamo con crescente irritazione nel tono della voce. “E non è solo mio, bensì di tutti.”
“Cos’è, una minaccia?” urla agitato. “Un terrorista! Guardie, a me!”
E all’improvviso vengo circondato da sguardi truci e canne di fucile assetate di vittime inermi.
“Non sono un terrorista”, tengo immediatamente a chiarire, e provo comunque a spiegarmi, cercando al contempo di mostrarmi calmo. “Lo sa in che mese siamo?”
Alla suddetta domanda il capitano e suoi sodali scoppiano a ridere, forse anche perché sollevati dal presunto attentato alla loro incolumità.
“Siamo a maggio, mozzo, e ora che ho risolto il tuo stupido quesito puoi tornare a lavare i pavimenti e lucidare i cannoni.”
A un tratto mi rendo conto che devo dirla tutta e in un sol fiato, altrimenti la scarsa capacità d’ascolto del tizio a cui abbiamo affidato il nostro destino mi impedirà di comunicare efficacemente il mio pensiero.
“Siamo a maggio, capitano, sì. Siamo a metà maggio, per essere precisi, ma la nostra nave è ancora scossa da vento e pioggia. Siamo a maggio inoltrato, che i precedenti diari di bordo si illudono ancora nell’indicare come picco di primavera o addirittura preludio all’estate. Siamo nel bel mezzo di maggio, signore, e fa freddo. In particolare al sorgere del sole e all’imbrunire. Come se all’inizio e alla fine di queste nostre folli giornate, alla stregua della storia che ci ospita, ovvero nel frangente in cui l’attenzione di chi legge dovrebbe essere più alta, il cielo si prodigasse nell’avvertirci che sì, abbiamo un problema grande come il mondo stesso. Perché quel problema è il mondo, e noi la causa o la soluzione, senza alternative.”
Inutile spiegare quale esito abbia avuto il mio accorato sfogo, ma ora che mi trovo in catene in una cella della stiva, condannato su due piedi per insubordinazione, non mi pento di ciò che ho fatto. Come quando innalzai sull’albero più alto uno striscione polemico, ancora una volta contro l’incompetente sovrano e sovranista unicamente della propria ottusità che chiamiamo capitano, e mi beccai ben venti frustate.
Perché, direte voi? Cosa motiva la mia ostinazione?
Ecco, apro gli occhi e il sogno si dissolve, ma questo non mi impedisce di continuare a vedere.
E io vedo domande cruciali che andrebbero poste a ogni candidato a guidare la nostra nave, grande o piccola che sia.
Cosa intendi fare per il rispetto dell’ambiente e i cambiamenti climatici? Qual è la tua strategia di fronte al riscaldamento globale? Qual è la tua opinione sulle energie sostenibili e le risorse rinnovabili?
A voi la scelta, come sempre, ma l’unica possibilità che abbiamo per sopravvivere al domani è escludendo senza se e senza ma chi non sia in grado di fornire risposte serie e ragionevoli a tali quesiti.
Figuriamoci coloro i quali non se li pongano neppure...
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La maggior parte di ciò che mi riguardi personalmente non conta, ora.
Il che vale per i miei interessi più egoistici e le mie aspirazioni più o meno lontane.
Non in questo momento, no.
Non quando ancora una volta mi ritrovo a pochi giorni dall’ennesimo momento in cui viene richiesto il mio voto, la scelta del partito, ovvero delle persone che dovranno decidere il nostro futuro come umanità, ancor prima che popoli e nazioni.
Raggiungo con estrema perplessità la finestra che dà sul mondo di fuori, reale o solo immaginato, chiudo gli occhi e vedo.
Vedo la nostra amata e al contempo maltrattata madre terra che col tempo si è trasformata in uno strano tipo di nave a forma di pianeta, la quale naviga senza vele o motore, sospinta nel proprio viaggio dal mero peso dei suoi passeggeri, portando un nome inconfondibile, inciso nel legno che separa questi ultimi dai flutti.
Titanic, già, è sufficiente la parola, per chi ha memoria e
A bordo sono un semplice mozzo e forse non è un caso, come non è altrettanto insolito che sia proprio nelle vesti del più sacrificabile dei membri dell’equipaggio che abbandono le mansioni preposte dalla gerarchia del mare e preoccupato per l’orizzonte che tutti noi attende raggiungo il ponte di comando.
“Signore, una parola”, esclamo con tutta la forza che nel mio affaticato corpo ancora resiste, rifiutando la resa alle ciniche sentenze del mostro chiamato realtà.
L’interessato è un capitano come molti di questi tempi, che sono tali solo sulla carta e qualche social network, ma che non hanno mai studiato la sublime arte del guidare una nave, men che meno imparato a leggere le stelle o a decifrare le rotte consigliate dai compianti disegnatori di mappamondi.
“Cosa vuoi?” domanda bruscamente, evidentemente interrotto in un partecipato sghignazzo con gli altri ufficiali.
“Capitano”, rispondo facendomi coraggio. “Abbiamo un problema.”
“Lo so bene, mozzo”, ribatte lui. “Mi hanno scelto per questo, ma con il sottoscritto nessuno degli invasori riusciranno a salire a bordo. Perché pensi abbia ordinato ai marinai di piantonare giorno e notte la nave da poppa a prua?”
Gli invasori, dice, e non posso fare a meno di pensare a quei disgraziati che galleggiano tra i flutti intorno a noi, mossi dal disperato desiderio di trarsi in salvo.
Alcuni provengono da improvvisate imbarcazioni colate a picco perché costruite con materiali di scarto di nostra fabbricazione o da noi stessi speronate.
Altri tra le onde ci sono nati e altri ancora ce li abbiamo buttati noi altri perché prima l’equipaggio, recitano le odierne bandiere, giammai la vita umana.
Una volta si gridava uomo in mare, ricordo. Ora la prima frase che viene pronunciata in questi casi è una domanda che sa di ostilità, giammai di solidarietà: è uno dei nostri?
A ogni modo cerco di farmi capire meglio dal titolare del timone.
“Capitano, scusi...”
“Sei ancora qui, tu?” fa lui ulteriormente infastidito dalla mia presenza. “Ah, ho capito. Vuoi farti un selfie con me. Bravo, sali le scalette e vieni qui, ma poi torna a lavorare.”
Di scale ne ho fatte nella mia vita, verso l’alto e spesso in basso, ma non credo esista un universo tra gli infiniti possibili in cui possa calpestare dei gradini per tale discutibile ragione. Indi per cui rimango impassibile e insisto.
“Capitano...”
“Mozzo”, bercia la versione sbagliata del mitico Achab, con il cuore e forse anche la testa di legno, al posto della gamba. “Perché scocci e non torni al tuo lavoro?”
“Non posso”, rispondo.
Non voglio e non devo, penso ma non dico mordendomi la lingua.
“Non puoi tornare al lavoro?” osserva lui. “Tutto okay. Come ben sai i miei ufficiali e io abbiamo istituito il reddito di navigazione. Goditi la nostra magnanimità e non rompere.”
“Ma il problema ci sarebbe comunque, capitano”, esclamo con crescente irritazione nel tono della voce. “E non è solo mio, bensì di tutti.”
“Cos’è, una minaccia?” urla agitato. “Un terrorista! Guardie, a me!”
E all’improvviso vengo circondato da sguardi truci e canne di fucile assetate di vittime inermi.
“Non sono un terrorista”, tengo immediatamente a chiarire, e provo comunque a spiegarmi, cercando al contempo di mostrarmi calmo. “Lo sa in che mese siamo?”
Alla suddetta domanda il capitano e suoi sodali scoppiano a ridere, forse anche perché sollevati dal presunto attentato alla loro incolumità.
“Siamo a maggio, mozzo, e ora che ho risolto il tuo stupido quesito puoi tornare a lavare i pavimenti e lucidare i cannoni.”
A un tratto mi rendo conto che devo dirla tutta e in un sol fiato, altrimenti la scarsa capacità d’ascolto del tizio a cui abbiamo affidato il nostro destino mi impedirà di comunicare efficacemente il mio pensiero.
“Siamo a maggio, capitano, sì. Siamo a metà maggio, per essere precisi, ma la nostra nave è ancora scossa da vento e pioggia. Siamo a maggio inoltrato, che i precedenti diari di bordo si illudono ancora nell’indicare come picco di primavera o addirittura preludio all’estate. Siamo nel bel mezzo di maggio, signore, e fa freddo. In particolare al sorgere del sole e all’imbrunire. Come se all’inizio e alla fine di queste nostre folli giornate, alla stregua della storia che ci ospita, ovvero nel frangente in cui l’attenzione di chi legge dovrebbe essere più alta, il cielo si prodigasse nell’avvertirci che sì, abbiamo un problema grande come il mondo stesso. Perché quel problema è il mondo, e noi la causa o la soluzione, senza alternative.”
Inutile spiegare quale esito abbia avuto il mio accorato sfogo, ma ora che mi trovo in catene in una cella della stiva, condannato su due piedi per insubordinazione, non mi pento di ciò che ho fatto. Come quando innalzai sull’albero più alto uno striscione polemico, ancora una volta contro l’incompetente sovrano e sovranista unicamente della propria ottusità che chiamiamo capitano, e mi beccai ben venti frustate.
Perché, direte voi? Cosa motiva la mia ostinazione?
Ecco, apro gli occhi e il sogno si dissolve, ma questo non mi impedisce di continuare a vedere.
E io vedo domande cruciali che andrebbero poste a ogni candidato a guidare la nostra nave, grande o piccola che sia.
Cosa intendi fare per il rispetto dell’ambiente e i cambiamenti climatici? Qual è la tua strategia di fronte al riscaldamento globale? Qual è la tua opinione sulle energie sostenibili e le risorse rinnovabili?
A voi la scelta, come sempre, ma l’unica possibilità che abbiamo per sopravvivere al domani è escludendo senza se e senza ma chi non sia in grado di fornire risposte serie e ragionevoli a tali quesiti.
Figuriamoci coloro i quali non se li pongano neppure...
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