Se Joyce Echaquan fosse stata bianca
Storie e Notizie N. 1943
Ecco. Questo credo dovremmo fare tutti, ogni qual volta ci troviamo di fronte a storie di vita particolarmente drammatiche, attuali e quanto mai significative: immedesimarci.
È l’unico modo per provare a immaginare sensazioni, per capirci qualcosa, per cambiare in meglio e crescere.
Coraggio, proviamoci insieme, facciamoci forza reciprocamente e per qualche secondo diventiamo lei.
Ora, in questo preciso istante, siamo una donna di nome Joyce.
Ci troviamo in Canada, precisamente a Joliette, nella regione di Lanaudière della provincia del Québec. Ma tu leggi pure nella terra che vide i primi esseri umani almeno undicimila anni fa, i Paleoamericani, ovvero gli avi delle popolazioni indigene nel territorio, le Prime Nazioni e gli Inuit.
Abbiamo 37 anni e stiamo male.
Siamo una donna con meno di quarant’anni e viviamo in un paese che si trova attualmente al 21esimo posto tra i più ricchi al mondo, sopra Regno Unito e Giappone.
Stiamo molto male e abbiamo ben sette figli.
Come miliardi di donne prima di noi e anche dopo su questo pianeta, anch’esse madri, nonostante tutto è essenzialmente per loro che siamo preoccupate.
Si dà il caso che abbiamo da un po’ dei problemi cardiaci e il tormento oggi è stato troppo forte per non recarci in ospedale.
Perché è in tali luoghi che si va quando il corpo urla e chiede aiuto.
È esattamente ciò che cerchiamo di far capire a chi di dovere, sacrosanto dovere: sentiamo dolore, troppo forte per non mollare tutto e venire qui a cercare conforto.
Tuttavia, accade qualcosa di incredibilmente sbagliato, ma potremmo anche chiamare orrendo. Anche se la definizione più azzeccata e al contempo scomoda è inevitabile, visto come abbiamo scelto di connetterci nella trascurata rete chiamata moderna umanità.
“Sei stupida da morire”, ci dice una delle signore di bianco vestite, mentre ci contorciamo sul letto per gli spasmi nella stanza diventata improvvisamente l’ennesima sala delle torture sistemiche.
“Hai finito di comportarti da stupida?” aggiunge un’altra, come a dire: non è un caso, non si tratta della solita, abusata, unica mela marcia.
Il fatto, ovvero l’infamia più legalizzata al mondo, è che dal momento del nostro ingresso nella apparentemente salvifica struttura ci hanno subito identificato come una tossicodipendente.
Perché l’abito non fa il monaco, ma laddove sia di bruna pelle intessuto, ancora oggi fa di tutto pur di distruggere vite e serenità.
Ciò malgrado, nonostante l’incredulità e la frustrazione, insistiamo a domandar sollievo dalla pena che ci sta dilaniando, ignorando che ad averci condannato non è stato il nostro cuore malato, bensì quello ormai defunto del prossimo in cui ti puoi imbattere ovunque, perfino nei luoghi più inattesi.
“Hai fatto delle scelte sbagliate, mia cara”, osserva indifferente alla nostra sofferenza una delle infermiere. “Cosa penseranno i tuoi figli vedendoti così?”
E noi piangiamo e ci lamentiamo invano, e pensiamo ai nostri bambini, quelli ancora troppo piccoli per tutto ciò che sarebbe troppo per chiunque.
“La smetti di scherzare?” dice un’altra. “La finisci?”
E la rabbia si mescola alle lacrime, che roventi rigano il nostro volto come i primi rivoli della lava di un vulcano in eruzione.
“Dannazione!” esclama il presunto angelo dal volto ferino. “Tu sei buona solo per fare sesso, più di ogni altra cosa.”
“Specialmente se siamo noi a dover pagare per tutto questo”, ribatte l’altra.
Quindi, alla fine dell’incubo, una delle due - non conta quale, giacché l’inferno in terra è uno ed è sempre lo stesso per le anime nate sfortunate – così sentenzia: “Meglio morta!”
Ebbene, anzi tutto il contrario, è esattamente così che il nostro viaggio dal sentiero ingiustamente troncato si conclude amaramente.
Siamo morte, già.
Il nostro nome era Joyce Echaquan e il referto attesta che in quel maledetto lunedì 27 settembre di un anno addietro abbiamo esalato l’ultimo respiro a 37 anni a causa di un edema polmonare legato a una rara condizione cardiaca.
Poco più di un anno dopo ecco però il responso umano, più che clinico, rilasciato ieri alla stampa dal coroner del Quebec, Géhane Kamel: se fossimo state bianche probabilmente oggi saremmo ancora vive, è il senso del messaggio. E se non avessimo filmato la nostra stessa morte, è altrettanto ragionevole che nessuno si sarebbe presa la briga di indagare.
Se fossimo state bianche, già.
Chissà, forse tu lo sei, a differenza del sottoscritto. Ma adesso, qui, non conta nulla. Poiché, se hai avuto la pazienza, il coraggio e l’amore per una vita che non è la tua di rivivere con me questa inaccettabile tragedia, sono sicuro che entrambi, ugualmente, abbiamo forse imparato qualcosa che potrà aiutarci a diventare delle persone migliori di un attimo fa.
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Il mio libro più recente: A morte i razzisti