La giusta conta delle vittime
Storie e Notizie N. 1967
C’era una volta la conta delle vittime.
Quella giusta, la quale cresce a dismisura con il trascorrere del tempo, per buona volontà di pochi, anche solo uno, e grazie a una innata predisposizione a immaginare le vite altrui, lì, dove la coscienza brucia maggiormente.
Indi per cui, partiamo da lontano, affinché la cifra finale sia la più rispettosa possibile di ciò che è realmente o tacitamente accaduto.
Maggio, 1981.
Bobby Sands muore dopo due mesi di sciopero della fame e scompare la leggenda del reggae Bob Marley; Giovanni Paolo II viene ferito gravemente in un attentato a piazza San Pietro e Donna Payant raggiunge il triste primato quale prima secondina degli Stati Uniti uccisa nell’esercizio delle sue funzioni. In poche parole, altre vittime, fortunatamente sopravvissute alla morte o decedute nelle vesti di martiri, destinate a diventar leggenda o semplice aneddoto per fissati con i record. Nello stesso mese, medesimo anno, tra le pieghe della Storia vi è Alice Sebold. Femmina, diciotto anni, bianca, caucasica, reciterebbe il grottesco racial profiling dei poliziotti americani e non sarebbe fuori luogo, per svariate ragioni, ma soprattutto perché è esattamente negli Stati Uniti che ci troviamo. Precisamente siamo a Syracuse, nello Stato di New York, nei pressi del campus dell’omonima università. È l’otto di maggio e sono le prime ore del mattino. Alice sta camminando accanto all’anfiteatro dell’ateneo quando viene aggredita e trascinata in una galleria e nell’oscurità di quest’ultima viene violentata. A soli diciotto anni, con tutta la vita ancora all’orizzonte, dopo aver superato la difficile prova nell’aver cura sin da piccola di una mamma alcolizzata e dopo aver finalmente spiccato il volo verso la laurea e la propria affermazione, Alice diventa una vittima. Come tante, più o meno raccontate.
Dopo aver denunciato il giorno stesso l’aggressione alle guardie di sicurezza dell’ateneo e ai poliziotti, confessa di non essere in grado di riconoscere il vile bruto.
Trascorrono cinque mesi.
Cinque maledetti mesi, per chiunque sia in qualche modo a essi legato, tra dolore e panico, angoscia e rabbia, e chissà cos’altro, perché soltanto chi abbia attraversato tali orrendi sentieri è effettivamente capace di enumerare ogni sfumatura del sentire.
Allo scadere di questi ultimi, nel frattempo Alice sta cercando di rimettere insieme i frammenti dello sconvolto puzzle che era la sua vita, quando passeggiando ancora una volta nei pressi del campus si imbatte in Anthony Broadwater.
Ma tu immagina pure, secondo il medesimo, aberrante copione, maschio, nero, anni ventuno.
Il giovane è un nero, ripeto; è un soldato, un soldato nero; un marine, nero, in temporaneo congedo, costretto a tornare a casa perché il papà è molto malato; ma più di ogni altra cosa, in quanto nero, sta per vedere la sua esistenza altrettanto sconvolta in modo irreversibile.
Difatti, Alice lo riconosce.
Ovvero, riconosce ciò che le hanno insegnato, come fanno ancora oggi in tutto il mondo: è nero ed è lui, il mio carnefice, il mio nemico, il soggetto reso oggetto d’odio e rivalsa, a prescindere da ogni livello di realtà.
Anthony viene arrestato e insieme ad altri quattro neri, rei semplicemente di esser tali e tanto basta, viene riunito in una stanza. In un’altra, divisa da quest’ultima da uno specchio unidirezionale, quanto lo è il razzismo istituzionale, vi è la stessa ragazza e le solerti forze dell’ordine. Alice sta per decidere della vita di un nero a caso tra i molti, ma è dubbiosa. Ma si era parlato di istituzionale qui sopra, giusto? Ebbene, ci pensa il sostituto procuratore a far sì che la macchina trita speranze, sogni e futuri ritenuti superflui completi il suo crudele lavoro: non ti sei sbagliata, è lui, è Anthony il nero tra i neri più nero di tutti, sulla pelle quanto nel cuore, perché quello al suo fianco è un suo amico e l’ha obbligato a seguirlo in modo da confonderti. Alice ora è convinta e si toglie il peso dal petto. Quella zavorra si trasforma e diviene l’insopportabile palla al piede che da quel momento farà precipitare il ragazzo in un incubo terrificante. Sei un nero e anche stupratore, Anthony, e questa giuria ti condanna per entrambi i crimini. Forse l’aggravante è dovuta a quello peggiore tra tutti: Anthony è innocente, sai? Nessuno si senta stupito, per favore. In altre parole, ecco la seconda vittima di questa triste vicenda.
Tuttavia, dal giorno dell’iniqua condanna, le strade dei due prendono direzioni differenti. Come peraltro vi era scritto all’inizio delle reciproche, istituzionali, sceneggiature. Alice, dopo essersi laureata alla Syracuse, si dedica alla sua passione, ovvero la letteratura, e nel 1999 viene alla luce il suo primo libro, Lucky, un racconto di memorie della sua vita e soprattutto della violenza subita. Lucky, fortunata, titolo amaro quanto significativo, perché fu esattamente ciò che le disse un poliziotto il giorno della denuncia: è stata fortunata, signorina, perché è ancora viva. Il libro ottiene ottimi risultati di critica e vendite, e la carriera di Alice ha inizio. Tre anni dopo viene dato alle stampe il suo racconto più celebre, ovvero Amabili resti, da cui viene tratto un noto film, mentre nel 2007 esce il suo terzo lavoro, La quasi luna.
Nel frattempo, nell’inferno in cui è finito Anthony la strada è tutt’altro che costellata da successi. Dopo una a dir poco dilaniante successione di farse processuali nel 1983 viene rinchiuso definitivamente in un carcere di massima sicurezza. Nero, ventitré anni, detenuto innocente tra i detenuti, colpevoli o meno, ma nelle vesti di stupratore, ovvero con lo spettro di diventare il bersaglio di tutti i criminali. Perché se truffi, rapini o addirittura uccidi, appartieni a una categoria degna di un rispetto che ai violentatori viene negata. E questo li getta in fondo alla catena alimentare di ogni prigione al mondo, in posizione migliore soltanto dei pedofili. Dopo sedici anni di cella e supplizi, dopo essersi visto negare la libertà sulla parola per ben cinque volte - perché il detenuto si ostina a dichiarasi innocente - nello stesso anno in cui la carriera di Alice sta sbocciando, peraltro con un libro che parla anche di lui, Anthony viene finalmente scarcerato. Nondimeno, l’inferno non è ancora concluso, perché ora è libero, ma è ancora un nero; un nero di trentanove anni; un nero ex galeotto; un uomo nero che riabbraccia dopo sedici anni la sola persona al mondo che gli ha sempre creduto, perché il padre è morto da tempo, ovvero sua moglie; ma, soprattutto, un nero ex galeotto e disoccupato che troverà assai difficilmente un impiego per tutti questi motivi e perché il suo nome è stato iscritto nel registro dei Sex Offenders, ovvero gli stupratori.
Dato che le differenze nelle rispettive esistenze dei due sono alquanto evidenti ed è ridondante sottolinearle, arriviamo ai giorni nostri. È il 2019, siamo nell’era del Me Too e il primo libro di Alice ritorna violentemente di moda, se mi si lascia passare l’equivocabile avverbio. Per ragioni il più delle volte lodevoli, il cinema è alla ricerca di storie vere sull’argomento in oggetto e i diritti dell’opera vengono acquistati: Lucky diventerà un film. Ora tutti sapranno la storia di Alice e tutti conosceranno la verità.
Non sempre accade, ma stavolta è successo sul serio. Perché uno dei produttori del film si è appassionato alla reale vicenda dentro la trama. In particolare, alla vita di Anthony e ha notato le incongruenze dove nessuno prima aveva avuto il coraggio di guardare. Ha ingaggiato un’agenzia di investigazioni e dopo due anni di ricerche e di istanze processuali viene fatta giustizia. Anthony è ora innocente perché lo era anche prima. E, contemporaneamente, quarant’anni dopo, all’improvviso tutti sanno che le vittime erano due.
Tuttavia, allorché si desideri fare giustizia sino in fondo, se non altro verso la conta di queste ultime, occorre iniziare ad affrontare il fatto che sepolte nel buio di una galleria o in qualsiasi anfratto della nostra società, le vittime, rese tali anche perché nere e innocenti, sono infinitamente di più…
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