Chi ha paura del dolore?

Storie e Notizie N. 2112

Di norma evito di parlare di questa parte della mia vita di cui sono sempre stato un po’ geloso, che considero non solo lavorativa, ma anche ideale, sociale, personale e potrei andare avanti per ore elencando aggettivi che dimostrino quanto sia rilevante per me.
Di recente l’ho fatto in video in occasione di uno spettacolo, che forse non la dice tutta, ma dopo quasi trent’anni era giunta l’ora e magari rende un po’ l’idea.
A ogni modo, mi ritrovo quest’oggi a scrivere in un momento insolito per il sottoscritto, ma ho detto a qualcuno di importante che l’avrei fatto e una promessa è una promessa, soprattutto qualora si tratti di adolescenti.
A tal proposito, quel qualcuno corrisponde ad alcune ragazze che partecipano ai miei laboratori, diciamo, con aspirazioni terapeutiche, o perlomeno sdrammatizzanti, il risultato minimo a cui ambisco ogni qual volta entro in quella stanza del centro diurno.
Nel dettaglio, nell’ultimo incontro ho ricevuto dalle giovani in oggetto una condivisione che mi ha lasciato particolarmente colpito, preoccupato, se non pure arrabbiato.
Sintetizzando: mi hanno bannato quasi tutti i video su TikTok perché si vedevano le cicatrici dei tagli sulle braccia o perché li ho girati mentre ero in clinica durante il ricovero.
Per una delle ragazze si tratta addirittura di centinaia, con la sospensione perfino dell’account stesso, e per un’altra erano video privati, quindi neppure condivisi in pubblico.
Ovviamente ho domandato loro se ci fosse anche la più piccola traccia di istigazione a farsi del male o altro, ma a quanto ho avuto modo di verificare perfino visionandone alcuni, si tratta di clip di pochi secondi che possiamo vedere oramai su milioni di profili social. Una ragazzina che canta e una che balla, o anche solo si specchia nel monitor con la speranza che qualcuno apprezzi. Il peccato originale? La maglietta a maniche corte che rivela i segni della propria sofferenza o il trovarsi in un ambiente dove quest’ultima è di casa, come forse talvolta sono i posti dove conduco i miei laboratori.
Tuttavia, non sono solo questo, anzi, ma anche luoghi dove si lotta per affrontarlo quel dolore, a viso aperto, con coraggio e ogni possibile umana risorsa. E le prime a farlo sono proprio quelle ragazze.
Così mi chiedo: come è possibile che tutto ciò sia qualcosa da bannare, ovvero bloccare, espellere o cancellare? In altre parole, come si può equiparare l’istigazione a farsi del male al disperato e tenero sforzo quotidiano di chi sta cercando di non farlo più? Non dovremmo invece incoraggiare queste ragazze ad accettare se stesse e ogni lacerazione più o meno auto inflitta, visibile e non, per imparare anche da esse ad amarsi invece che il contrario?
A sentire le interessate, ma anche informandomi a riguardo – o almeno basandomi su una laurea in informatica che risulta utile di tanto in tanto – la colpa è dell’algoritmo.
Ma se questo è il caso, ci va bene come giustificazione? E a quali ulteriori riflessioni ci conduce tale paradossale stato di cose?
Va detto che non sono particolarmente interessato a un’opera di miglioramento dei social network in generale, visto che come ripeto spesso dalla metà del 2019 sono uscito dal tunnel, e il consiglio che mi sento di dare a tutti gli adolescenti – con gli adulti ho perso le speranze – è di fare lo stesso. Tuttavia, malgrado ciò che è elencato nelle avvertenze del social in questione, trovo paradossale che avvenga quanto detto, mentre articoli, studi attenti e ricerche approfondite ci avvertono di continuo delle pericolosità di questi siti per i nostri figli.
Nondimeno, il tema credo sia ben più vasto e complesso. Mi riferisco alla suddetta contraddittoria e del tutto arbitraria decisione dell’algoritmo, ovvero al potere sulle nostre vite che sempre più stiamo dando a un pugno di zeri e di uni, tra i recenti chatbot e, in generale e a lungo andare, le intelligenze artificiali.
Ma per quanto il momento della singolarità tecnologica – ovvero l’avvento di un cervello artificiale o non, tutto fuorché umano, superiore al nostro – sia ancora relativamente lontano, ho impressione che ciò che è accaduto alle ragazzine del mio centro sia solo uno dei tanti sintomi di un’idea di società che non solo sta perdendo di vista l’essenza di ciò che siamo, ma che al contempo sta facendo sue le nostre devianze invece che il contrario, il tutto definito da norme che non tengono conto dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni, soprattutto di ogni singolo individuo qualora non rientrino nelle enormi quantità di dati che dovrebbero rappresentarci.
Queste non sono altro che le conseguenze di un capitalismo digitale, dove ancora una volta il profitto, il marketing delle merci come persone e l’inverso, nonché i necessariamente ricchi ricavi, sono la sola cosa che conti. E da che mondo è mondo il capitalismo, in ogni sua forma, ha sempre avuto il terrore delle nostre imprevedibili ribellioni a un destino già scritto, della nostra irrazionale propensione all’utopia e soprattutto al coraggio di raccontare al mondo le personali vulnerabilità.
Come il dolore, già.

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