Giovanna Pedretti e il suicidio del silenzio

Storie e Notizie N. 2219

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Malgrado per passione o lavoro sia profondamente legato all’arte del dire, del comunicare – che non sono la stessa cosa - o anche solo del rappresentare le cose del mondo, col passare degli anni ho sempre più affezione per il silenzio.
Anche per questo, quasi cinque anni fa, sono uscito definitivamente dai social network.
Mi spiego meglio, ci provo.
L’argomento è la triste e ormai arcinota vicenda di Giovanna Pedretti, la ristoratrice che ha finito con il suicidarsi domenica mattina.
Tuttavia, non ho intenzione di unirmi al cacofonico quanto grottesco carrozzone, il quale va in scena con incessante cadenza ovunque, basta sia in qualche modo raggiungibile dall’occhio dei più.
Vorrei solo raccontare qualcosa di cui ero convinto ancor prima della diffusione di tale amara vicenda. Non ho intenzione di cercare di convincere nessuno a fare una cosa o l’altra. La maggior parte delle persone che frequento trascorre quantità di tempo non indifferenti sui social, ma non posso fare a meno di cogliere questa occasione per condividere ancora una volta l’idea che costruire prezioso silenzio tra se stessi e gli altri, eliminando del tutto alcune delle artificiali protesi virtuali che in qualche illusorio modo dovrebbero avvicinarci al prossimo e offrirci alternative modalità di espressione e comunicazione, può donare grandi benefici al corpo e alla mente. E, in taluni casi, potrebbe addirittura salvarci la vita.
Quando dico “social” mi prendo la responsabilità di operare una forzatura riguardo ai confini che in teoria esistono, o dovrebbero esserci, tra i vari Facebook e simili, i maggiori quotidiani nostrani, in versione cartacea o solo online, e i programmi della televisione cosiddetta generalista. Per la cronaca, quest’ultima l’ho abbandonata altrettanto quasi vent’anni addietro semplicemente staccando l’antenna, e per quanto concerne i giornali ho l’abitudine da altrettanto tempo di informarmi, come dire, in maniera autonoma grazie a internet, diversificando al massimo le fonti e sforzandomi caso per caso di dedurre l’essenza dei fatti privando questi ultimi delle mere opinioni o peggio, come si fa con la gramigna.
Ciò che voglio dire credo sia evidente, a mio modesto parere. Che sia il profilo di qualche personaggio o brand particolarmente noto, la prima pagina di un affermato giornale di prima fascia, il post di qualche personaggio in cima alle classifiche di influenza del momento, ma anche lo studio di un talk show, le notizie del telegiornale, ormai da decenni, ciò che abbiamo davanti in ogni istante funziona allo stesso identico modo. Il linguaggio, le immagini, i suoni, ogni dettaglio, sono pressoché identici in ciascuno di questi spazi che sono solo in apparenza distinti. Sono tutti parte di un enorme social, dal mio punto di vista, e il problema è che ci illudiamo che esistano ancora delle soluzioni di continuità.
Forse dovrei dire che ne “siamo” parte, tuttavia mi permetto di rivendicare la porzione di distanza che da tempi non sospetti sto alacremente cercando di creare nel mio piccolo tra il sottoscritto e tutto questo. E che sono qui a consigliare vivamente.
Si chiama silenzio, lo ripeto, ed è una ricetta di cui vorrei dimostrarne i vantaggi.
Per far ciò mi permetto di usare quale emblematico esempio la dolorosa vicenda di cui sopra, ma solo perché penso che possa risultare utile a chi mi legge o ascolta.
Senza riepilogare i fatti che ormai sono stati sviscerati nel dettaglio dappertutto, vorrei far notare che la notizia della recensione omofoba e della apprezzabile replica della proprietaria del ristorante in provincia di Lodi è stata diffusa il 12 gennaio, anche se pare che la suddetta signora abbia condiviso il suo pensiero su Facebook il giorno prima.
Ecco, fermatevi qui. In questo momento della storia non solo nessuno sapeva per certo tutto ciò che invece è stato affermato o insinuato in seguito, ma, soprattutto, nessun altro avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe accaduto in seguito.
Ripeto per chiarezza, al momento della pubblicazione della notizia, tranne la povera vittima di questo racconto dal finale sfortunatamente vero e i suoi colleghi, oltre a chi era presente nel locale il giorno incriminato, nessuno può affermare di conoscere con certezza la verità.
Eppure, in questa occasione - come in tutte le altre che si guadagnano il favore, si fa per dire, della cronaca -, in tale preciso istante e anche dopo, malgrado la totalità di chi legge o guarda il tutto da più o meno lontano sappia poco o nulla,  chiunque si sente in dovere, oltre che diritto, di dire la propria. Di gridarla, perfino, in modo che arrivi a più persone possibile, a prescindere da tutto, a ogni costo o conseguenza. Perché l’unica cosa che conti è che sia visto e letto da molti.
Cliccate e condividete, fratelli e sorelle, questa è la supplica.
Diventare virale, la speranza.
La fama è il sogno, sebbene solo per una frazione di secondo. Ma tanto poi si ricomincia da capo con altro. Anzi, lo stanno già facendo. E questo è il gigantesco social o spettacolo, di cui parlavo poc’anzi, che deve necessariamente andare avanti.
Nemmeno la morte del protagonista è in grado di fermare questo orrore.
Forse perché assieme a lei anche il silenzio si è suicidato.
O, magari, si tratta di una sottile e perniciosa forma di omicidio mediatico.

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