La proprietà privata spiegata ai bambini e ai ragazzi
Storie e Notizie N. 2281
Uno degli aspetti che trovo molto interessanti nei nostri dibattiti attuali è il concetto di chi “crea ricchezza”. Questa ricchezza si “crea” solo quando è di proprietà privata. Come chiamereste l'acqua pulita, l'aria fresca, un ambiente sicuro? Non sono forse una forma di ricchezza? E perché diventano ricchezza solo quando un'entità le recinta e le dichiara proprietà privata? Beh, sapete, questa non è “creazione” di ricchezza. Questa è usurpazione di ricchezza.
Elaine Bernard, The Corporation (2003)
C’era una volta la proprietà privata.
Anzi no, c’era una volta un parco.
Uno di quelli come molti, da queste parti. Con i prati ancora verdi, gli alberi ancora vivi e magari perfino un laghetto di origini incredibilmente naturali.
Immaginate di far parte di una famiglia che vi si reca a fare un picnic, come quelli che vanno per la maggiore il lunedì dell’Angelo, a Pasquetta. Ma in ritardo.
Ebbene, figuratevi di trovare lo spazio disponibile completamente occupato da una miriade di altre famiglie, ma che tra tutte ce ne sia una che non solo ha preso possesso di una porzione del prato ben più che sufficiente per se stessa ma subito accanto ha provveduto a far suo uno spazio di pari grandezza, vuoto ma disponibile all’occorrenza – che so, per una cacatina del cagnolino o quant’altro – e scrupolosamente recintato, con tanto di filo spinato, cartelli con scritto divieto di ingresso, e addirittura “attenti al cane”, nonostante la bestiola faccia paura solo a se stessa.
Lo so, scivoliamo ben presto nel grottesco, ma è la nostra società a esserlo assai di più e l’immaginazione non potrà mai reggere il confronto come da proverbio.
Mettiamo che la famigliola ritardataria decida di opporsi a tale iniqua occupazione di suolo pubblico e vada a protestare con i colpevoli.
La discussione non risolve il problema, giacché gli occupanti non hanno intenzione di spostarsi e il cagnolino non morderà, ma si impegna in un abbaiare davvero fastidioso.
Ora, a questo punto si potrebbero palesare tre differenti scenari: nel primo la famiglia svegliatasi tardi telefonerebbe alla forza pubblica per ottenere giustizia, ma vista la festività e i normali tempi di reazione della suddetta, buona parte della giornata rischierebbe di andare in fumo. Nel secondo, quello ideale che molti vorrebbero, le altre famigliole scenderebbero in campo a sostegno degli ultimi arrivati e gli usurpatori della Terra di tutti, vedendosi accerchiati dalla maggioranza giusta, toglierebbe il recinto ritirandosi in buon ordine. Magari se ne andrebbero pure per la vergogna, lasciando spazio a un’ulteriore famiglia, rea soltanto di non essere stata tempestiva come gli altri.
Nel terzo e ultimo scenario, nessuna delle famiglie vicine interviene. Alcuni preferiscono farsi i fatti propri, la maggior parte presumo, e altri addirittura vedono come un problema proprio gli ultimi arrivati, giacché prima del loro arrivo regnava la calma che avevano cercato. Della serie: colpa tua che non sei arrivato presto. Sono più che certo che molti tra coloro che leggono la pensino così. E poi ci sono loro, quelli, che una volta osservate la famiglia ritardataria allontanarsi con il capo chino e la coda fra le gambe e l’altra, quella dei furbi, festeggiare trionfante la vittoria, rimuginano sull’accaduto e ne fanno inquietante tesoro.
Costoro, in questo seppur paradossale racconto che vi esorto ad assecondare, in occasione della Pasquetta dell’anno successivo si presentano ancor più presto della volta precedente. Ma non si limitano a recintare al massimo il doppio dello spazio necessario per loro: si prendono l’intero prato con accesso al lago, montano paletti e sbarre, portano amici e parenti robusti e minacciosi a far da sentinelle, un vero cane violento, ovvero più umano, a far da guardia, e si prendono perfino la briga di dare un nome a quel pezzo di terra un tempo di tutti. Che so, lo chiamano Nostro, come il mare dei Romani di una volta e gli xenofobi di oggi.
Gli scenari successivi potrebbero essere simili a quelli suggeriti in precedenza. La gente che arriva in seguito chiede l’intervento della legge oppure si fa forza insieme per farla valere comunque. Ma a proposito di realismo, se fosse davvero così facile, le nostre spiagge sarebbero tutte libere come nel resto dell’Europa e in molte parti del mondo, per dirne una.
Ciò che conta è la reazione delle altre famiglie nell’eventualità che resta. C’è chi torna a casa mestamente, chi decide di cercare un altro parco, seppur con poca speranza, e poi ci sono loro, quegli altri.
Costoro hanno ormai fatto propria la più semplice tra le barbare lezioni: con la prepotenza e la forza ottieni ciò che vuoi. Indi per cui, si alleano con altri con le medesime convinzioni, si armano fino ai denti, e muovono in marcia verso il primo parco a disposizione, libero o meno. Lo assaltano, ne prendono possesso e ormai non hanno più freni o scrupoli, perché non solo si accingono a fare il loro picnic senza alcun senso di colpa, ma addirittura costringono le famiglie che erano arrivate prima di loro a servirli e ad allietarli.
In tale presunto, deforme specchio, il tempo passa e la natura, con l’ultima arma che le resta per difendersi, infierisce su se stessa: nel famigerato parco il lago è ormai solo il triste fondo che lo ospitava, il prato è arido come il cuore di un miliardario stanco dei suoi stessi danari e gli alberi sono come dei fantasmi con i piedi intrappolati nel suolo, imploranti di essere liberati da tale supplizio.
Di conseguenza, gli occupanti, ovvero il padroni del prato Nostro, non vedono altra alternativa di armarsi anche loro fino ai denti e marciare verso i parchi dove la natura non ha ancora passato la sua amara falce. Le famiglie combattono l’una contro l’altra e il sangue viene versato, finché la legge della prepotenza e della forza non decide chi potrà godere del verde e dell’acqua rimasta. Nel mentre, le famiglie che sono rimaste al di fuori dei recinti di questo mondo, cominceranno a vagare di parco in parco alla ricerca di uno spazio per loro. Arrivando a rendersi disponibili a svolgere qualsiasi compito, pur di poter godere anche loro di un po’ di sole nel lunedì dell’Angelo.
C’era una volta, quindi, un parco.
Anzi no, c’era una volta la proprietà privata.
Da cui, come fin qui raccontato, sono nate la schiavitù, la guerra, la tragedia delle persone migranti e la maggior parte delle piaghe della nostra umana società.