Scrittori migranti...

Questa mattina, in uno scambio di email, mi sono trovato ancora una volta a chiarire il mio parere sugli scrittori migranti.
In particolare sull'aggettivo migrante.
Per la cronaca, una giornalista di una nota rete televisiva nazionale chiede di intervistarmi in quanto scrittore migrante, promettendomi visibilità sul sito della stessa.
Dopo aver constatato la totale ignoranza della tipa sulle origini del sottoscritto, la informo che - nonostante il complicato cognome - sono nato a Napoli.
E cosa risponde lei?
"E vabbe', tanto noi non ce lo mettiamo..."
Così, ho sentito la necessità di riportare di nuovo qui il mio punto di vista: non sono uno scrittore migrante.
Forse sono uno scrittore, ci provo ogni giorno, ma non sono un migrante.
Sono italiano, penso e mi esprimo in italiano.
Nel mio lavoro mi sono occupato, tra le altre cose, anche di intercultura, dell'incontro tra le diversità e come la intendo io essa non riguarda solo gli immigrati ma tutti noi, soprattutto noi.
Anzi, più noi che gli stranieri, a mio modestissimo parere.
So per esperienza di seguire una linea totalmente fuori dal coro, tuttavia dal mio punto di vista non posso fare altro che garantire un minimo criterio di onestà nello scegliere in quale ambito intervenire e soprattutto come.
Per me migrante vuol dire qualcosa di ben preciso.
Migrante lo è stato mio padre quando ha lasciato l'Eritrea per venire in Italia a studiare.
Dal momento però che ha iniziato a vivere da italiano, ad innamorarsi e ad avere dei figli in questo paese, fino a morire ed essere qui sepolto, ha fortunatamente smesso di esserlo.
Migrante lo è stata anche mia madre, quando è partita da Napoli col mio papà ed è venuta a vivere a Roma, desiderosa di migliorare la loro situazione di vita.
Nondimeno, ha smesso anche lei di esser tale nell'istante che ha guadagnato tutti i benefici di una stabilità che tante, troppe persone nel mondo possono solo sognare.
Gente che vive ancora solo nella propria immaginazione la presunta fortuna di salire su una nave stracolma di persone aggrappate alla speranza di sopravvivere al viaggio.
Viaggio che può portare ad una cella di un Cpt, ovvero Cie, come li chiamano oggi, o per "buona" sorte ad inseguire il permesso di soggiorno come se fosse l'elisir di lunga vita.
Questa gente potremmo definirla coerentemente migrante, oltre ad esseri umani e nulla di meno, finché non hanno la grande fortuna che hanno avuto i miei genitori.
Ecco perché, secondo il mio umile parere, sarebbe ingiusto per non dire di peggio definire oggi mia madre e mio padre dei migranti.
Figuriamoci il sottoscritto...
In questi anni sono stato definito in molti modi: scrittore "africano", autore "straniero", scrittore "immigrato", addirittura scrittore "etiope" e, ovviamente, anche "migrante".
Se avessi accettato queste identità che, come spero ora sia chiaro, non mi appartengono, avrei avuto la possibilità di partecipare a molti più eventi pubblici, rassegne, convegni, anche pubblicazioni.
Non voglio parlare per gli altri, ma io non avrei accettato tali opportunità perfino se fossi nato veramente in Africa...
Sarebbe come mancare di rispetto a quello che è stato mio padre, alle vere difficoltà che ha dovuto affrontare quando è giunto in Italia all'inizio degli anni sessanta.
E non per fare lo "scrittore" e andare in giro a tenere "lezioni" su cosa voglia dire essere un migrante.
Sarebbe come mancare di rispetto alle milioni di persone nel mondo che vivono questa condizione per quello che è: un disagio, spesso una sofferenza, talvolta una tragedia.
Sono loro le voci a cui dovremmo prestare orecchio, sono le loro le voci che dovremmo invitare ai convegni, agli incontri, che dovremmo pubblicare come "migranti".
E non in quanto scrittori, ma perché testimoni diretti della propria difficile vita.
Difficile anche per colpa della politica infame di paesi come il nostro.
Gli scrittori, da ovunque essi arrivino, dovrebbero meritarsi il privilegio di essere pubblicati, letti e ascoltati solo per un semplice motivo: perché sono bravi...
 



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