Storia sulla pena di morte: esecuzione dei 43 minuti

Storie e Notizie N. 1101


Leggo che negli USA, nel penitenziario di McAlester, Oklahoma, un condannato a morte per iniezione letale si è inaspettatamente svegliato e dopo interminabili minuti di terribili sofferenze è morto urlando per arresto cardiaco.

Nelle storie ci siamo tutti.
Nelle nostre, è ovvio.
In quelle di chi amiamo.
Altrettanto scontato.
Nelle vicende di coloro che sogniamo e ammiriamo.
Sì, anche lì siamo presenti.
Inaspettati protagonisti.
Perché senza di noi non avrebbero ragione di esistere.
Privilegiate vite nel firmamento delle umane divinità.
Umanissime, a dirla tutta.
Siamo altresì nelle storie della gente che ci sfrutta.
E che si approfitta di noi, lucrando sulle nostre cecità.
Se ne accorgono meglio laddove alziamo la testa, ma questo accade ogni giorno che passa meno di frequente.
Leggi come la tanto sottovalutata ultima risorsa degli schiavi inconsapevoli.
In breve, rivoluzione.
Siamo quindi in tutte le storie.
Anche quelle che consideriamo aliene, a noi come ai nostri vicini di poltrona.
Vi siamo pure se le ignoriamo.
Figuriamoci se ne veniamo a conoscenza.
Perché leggere qualcosa vuol dire legare.
Le parole alla mente e le conseguenze di esse a tutto il resto.
In tutte le storie, quindi, belle o brutte, siamo lì.
In piedi, di spalle, ad occhi aperti o con gli indici incastrati nelle orecchie, con le mani in gioco o con la coscienza nascosta dietro al cuore, del quale magari se n’è persa ogni traccia.
In una vita intera, nell’infinito dei santi celebrati sulla pubblica piazza, più o meno lecitamente, o in un’ora orridamente allungata le storie vanno in scena e noi con loro.
Come negli ultimi 43 minuti di Clayton D. Lockett.
Siamo stati anche là, volenti o nolenti.
Siamo coloro che non hanno battuto ciglio perché l’uomo ha ucciso, era comunque colpevole e la colpa del condannato giustifica l’errore del boia.
Siamo tra quelli che avversano la pena di morte, figuriamoci il crudele corollario di tortura alla disumana pratica.
E in mezzo a tali estremi di un immaginario tribunale danziamo.
Presi dalla nostra personale, di storia.
Fuggendo da essa di tanto in tanto.
Siamo quindi inevitabilmente giurati e giudici.
Il boia.
Il colpevole e la vittima.
Siamo l’indifferente siringa.
Nuotiamo imperterriti o disgustati nel liquido mortale.
Uccidiamo.
E al contempo proviamo compassione.
Perché siamo stati in tutte le storie che ci hanno preceduti.
E in tutte le storie siamo stati tutto.
Ecco perché oggi, in questo preciso istante e più che mai nel secondo che verrà possiamo scrivere qualcosa di meglio.
Forse dobbiamo, più che possiamo.