Matteo Salvini a Roma: discorso ufficiale in anteprima video
Storie e Notizie N. 1197
C’era una volta una città.
Senza citare il nome, vi basti sapere che leggendolo al contrario veniva fuori un sentimento.
Capace di muovere le umane genti da nord a sud, per dirne una.
Nella città il cui nome all’inverso spostava folle da settentrione a meridione erano calati in tanti, sin dalla sua fondazione.
Ab Urbe condita, usando un’espressione facile per i sani di memoria e qualcosa che abbia a che fare col cibo per i prodi calanti.
Tutti sommossi dall’ardire nell’affermare di avere la giusta risposta.
Di cui il popolo avesse bisogno.
Una sola, priva di vane sviolinate sintattiche e men che meno di uno sterile possesso palla semantico.
E si sa, il popolo di domande insolute ne ha molte, fin troppe.
Laddove arrivi qualcuno che semplifichi è come dio in terra.
Il verbo si fa carne.
Di quale animale o carogna non conta.
Venne così il giorno in cui il privilegio di calare in città toccò a Matteo Salvini.
No, non lui, un altro.
Un bello e alto, va’, così non ci confondiamo.
Qui si narra una storia e qui, qui sì, si può raccontare qualche balla.
Allorché ci aiuti nell’impresa.
Il nostro, si fa per dire, si trovava a pochi istanti dal suo tanto atteso esordio al ballo dei ributtanti, altro modo con cui venivano chiamati gli eroi che calano dall’alto.
Ributtanti nel senso di rigettanti, colazione o quello che volete, a causa del Jet lag.
Matteo era chiuso nel camper e stava provando il discorso che avrebbe tenuto di fronte alla piazza gremita di patridioti, che è un neologismo last minute per indicare coloro che si ritengano patrioti e invece si comportino da…
D’accordo, questa magari la taglio, andiamo avanti.
Il lider, parola che scritta così non vuol dire nulla e non a caso, sentì bussare e aprì.
“Matteo, brutte notizie, gli immigrati se ne sono andati tutti.”
“Proprio adesso? E perché?”
“Perché si sono stancati di prendersi ogni volta le colpe di tutto, così hanno detto.”
Matteo fu così costretto a rivedere il testo.
Diciamo a cancellare e molto, ad esser sinceri.
Era riuscito a rimediare quando bussarono di nuovo alla porta del camper.
“Matteo”, disse il tizio di prima, “i Rom non ci sono più, tutti i campi sono vuoti.”
“Ma cos’è questa, una congiura?”
“No, vedi, un loro scienziato ha scoperto un pianeta abitabile, con acqua e cibo a volontà, e ha dichiarato che ci può andare solo chi vivesse nei campi nomadi.”
E Matteo riprese a modificare, che, presumo sia ormai chiaro, voleva dire tagliare, tagliare assai.
Pochi attimi e un ennesimo doppio toc risuonò.
“Che altro c’è adesso?”
“Matteo, brutte notizie: non c’è più neanche un omosessuale in giro.”
“E le lesbiche?”
“Via tutte.”
“Ma cosa ho fatto di male? E perché se ne sono andati?” chiese angosciato.
“Perché a forza di farli sentire diversi lo sono diventati davvero. Gli sono cresciute le branchie e ora vivono nel mare, amandosi come gli pare. Qualche scorfano ha protestato, ma nulla più.”
Non aveva neanche finito di eliminare paragrafi interi dal discorso allorché bussarono nuovamente.
In breve, altri nemici se ne erano andati, tra cui gli islamici, gli atei e le vecchine senza dentiera, che Matteo non aveva mai potuto soffrire a causa di un trauma infantile di cui non abbiamo il tempo di parlare.
Il nuovo baluardo calante tagliò, tagliò ancora e con le lacrime agli occhi osservò quel che era rimasto del foglio.
Ovvero, il foglio, solo quello.
Buono per pulirsi il… d’accordo, non scadiamo, che abbiamo quasi finito.
“Capo”, gridarono dall’esterno, “ci siamo, ti aspettano sul palco.”
Matteo andò davanti allo specchio per trovare ispirazione, un po’ come De Niro in Taxi Driver, che Bob mi perdoni, e osservando il proprio volto affranto riflesso si rammentò del vero motivo per il quale la schiumante orda lo attendesse in piazza.
Si ricordò, pure, del sentimento che letto al contrario dava il nome alla città che ambiva conquistare.
No, non era amor, tutt’altro.
Sempre se esista una città che si chiami Oido.
Matteo liberò gli occhi dalle vili lacrime, aprì la porta del camper per raggiungere il palco e una volta innanzi alla sua gente fece l’unica cosa che davvero sapeva fare.
Urlò, di rabbia e rancore berciò a squarciagola per un’ora intera.
E tutti gridarono di rimando, applaudirono e vissero per sempre illusi di esser contenti.
Compra il mio ultimo libro, Roba da bambini, Tempesta Editore
C’era una volta una città.
Capace di muovere le umane genti da nord a sud, per dirne una.
Nella città il cui nome all’inverso spostava folle da settentrione a meridione erano calati in tanti, sin dalla sua fondazione.
Ab Urbe condita, usando un’espressione facile per i sani di memoria e qualcosa che abbia a che fare col cibo per i prodi calanti.
Tutti sommossi dall’ardire nell’affermare di avere la giusta risposta.
Di cui il popolo avesse bisogno.
Una sola, priva di vane sviolinate sintattiche e men che meno di uno sterile possesso palla semantico.
E si sa, il popolo di domande insolute ne ha molte, fin troppe.
Laddove arrivi qualcuno che semplifichi è come dio in terra.
Il verbo si fa carne.
Di quale animale o carogna non conta.
Venne così il giorno in cui il privilegio di calare in città toccò a Matteo Salvini.
No, non lui, un altro.
Un bello e alto, va’, così non ci confondiamo.
Qui si narra una storia e qui, qui sì, si può raccontare qualche balla.
Allorché ci aiuti nell’impresa.
Il nostro, si fa per dire, si trovava a pochi istanti dal suo tanto atteso esordio al ballo dei ributtanti, altro modo con cui venivano chiamati gli eroi che calano dall’alto.
Ributtanti nel senso di rigettanti, colazione o quello che volete, a causa del Jet lag.
Matteo era chiuso nel camper e stava provando il discorso che avrebbe tenuto di fronte alla piazza gremita di patridioti, che è un neologismo last minute per indicare coloro che si ritengano patrioti e invece si comportino da…
D’accordo, questa magari la taglio, andiamo avanti.
Il lider, parola che scritta così non vuol dire nulla e non a caso, sentì bussare e aprì.
“Matteo, brutte notizie, gli immigrati se ne sono andati tutti.”
“Proprio adesso? E perché?”
“Perché si sono stancati di prendersi ogni volta le colpe di tutto, così hanno detto.”
Matteo fu così costretto a rivedere il testo.
Diciamo a cancellare e molto, ad esser sinceri.
Era riuscito a rimediare quando bussarono di nuovo alla porta del camper.
“Matteo”, disse il tizio di prima, “i Rom non ci sono più, tutti i campi sono vuoti.”
“Ma cos’è questa, una congiura?”
“No, vedi, un loro scienziato ha scoperto un pianeta abitabile, con acqua e cibo a volontà, e ha dichiarato che ci può andare solo chi vivesse nei campi nomadi.”
E Matteo riprese a modificare, che, presumo sia ormai chiaro, voleva dire tagliare, tagliare assai.
Pochi attimi e un ennesimo doppio toc risuonò.
“Che altro c’è adesso?”
“Matteo, brutte notizie: non c’è più neanche un omosessuale in giro.”
“E le lesbiche?”
“Via tutte.”
“Ma cosa ho fatto di male? E perché se ne sono andati?” chiese angosciato.
“Perché a forza di farli sentire diversi lo sono diventati davvero. Gli sono cresciute le branchie e ora vivono nel mare, amandosi come gli pare. Qualche scorfano ha protestato, ma nulla più.”
Non aveva neanche finito di eliminare paragrafi interi dal discorso allorché bussarono nuovamente.
In breve, altri nemici se ne erano andati, tra cui gli islamici, gli atei e le vecchine senza dentiera, che Matteo non aveva mai potuto soffrire a causa di un trauma infantile di cui non abbiamo il tempo di parlare.
Il nuovo baluardo calante tagliò, tagliò ancora e con le lacrime agli occhi osservò quel che era rimasto del foglio.
Ovvero, il foglio, solo quello.
Buono per pulirsi il… d’accordo, non scadiamo, che abbiamo quasi finito.
“Capo”, gridarono dall’esterno, “ci siamo, ti aspettano sul palco.”
Matteo andò davanti allo specchio per trovare ispirazione, un po’ come De Niro in Taxi Driver, che Bob mi perdoni, e osservando il proprio volto affranto riflesso si rammentò del vero motivo per il quale la schiumante orda lo attendesse in piazza.
Si ricordò, pure, del sentimento che letto al contrario dava il nome alla città che ambiva conquistare.
No, non era amor, tutt’altro.
Sempre se esista una città che si chiami Oido.
Matteo liberò gli occhi dalle vili lacrime, aprì la porta del camper per raggiungere il palco e una volta innanzi alla sua gente fece l’unica cosa che davvero sapeva fare.
Urlò, di rabbia e rancore berciò a squarciagola per un’ora intera.
E tutti gridarono di rimando, applaudirono e vissero per sempre illusi di esser contenti.
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