La grammatica del razzismo

Storie e Notizie N. 1670

Kone Yossodjo ha diciannove anni e oggi corre.
Corre per il suo paese, quello nuovo, la Spagna. Che è altresì nuova, perlomeno più veloce, se non migliore, anche grazie a lui.
Cinque anni addietro, Kone fu costretto a correre non per qualcosa, ma da.
Dal suo paese, quello vecchio, la Costa D’Avorio. La quale, passata o presente, sarà anch’essa la sua terra per sempre, forse più povera e meno veloce, ma non per colpa sua. E quando sopravvivere comporta il fuggire da qualcosa, di cui si è del tutto innocenti, tutto ciò che ne arriverà di buono, potrà esser tale per tutti.
Oggi il nostro è una promessa dell’atletica, nella nazione più vasta e popolosa della penisola iberica. Nell’ultimo anno ha vinto 5 gare su 11 ed è attualmente il campione assoluto dei 5000 metri in Andalusia. E la cosa più


sorprendente è che, a neanche un anno dal suo arrivo in Spagna, dopo essere stato arrestato e poi trasferito in un centro per minori, ha cominciato a mostrare tutto il suo talento, sospinto da un vento magico e speciale che i giudici di sedia preposti non sono in grado di rilevare, come molti dei contemporanei dagli umani sensi ormai atrofizzati.
Si chiama speranza, punto. Senza guardare in alto o in basso, pronti a prendere tutto quel che ci sarà all’arrivo, basta che ci sarà.
In breve, adesso corre per la sua terra e non più da essa.
Ci sono voluti anni, fatica e dolore, sacrifici e inenarrabili difficoltà. Eppure, dal lato sicuro del traguardo, dove il più delle volte assistiamo sugli spalti con i nostri pollici affezionati alla posizione capovolta, potremmo davvero fare la differenza in un tempo assai più immediato e, decisamente, con molto meno sforzo.
A noi altri sarebbe sufficiente una mera conversione lessicale e neppure così approfondita. Basterebbe limitarsi ad articoli, pronomi e preposizioni, semplici o articolate che siano.
Per esempio, ogni tanto, potremmo smetterla di parlare dei migranti e cominciare a comunicare con loro.
E qualora uno qualsiasi tra costoro dovesse inevitabilmente divenire protagonista dei nostri discorsi, dovremmo iniziare a esprimerci su di lui unicamente, prendendoci però la briga di conoscere quanto meglio possiamo la sua storia personale, invece che ascriverlo frettolosamente alla solita macro categoria dei senza volto e diritti che come società abbiamo inventato di sana pianta in uno dei nostri giorni peggiori.
A quel punto, risulterebbe evidente a tutti quanto sia assurdo e anche stupido sentirsi in dovere di spiegare la propria opinione sugli immigrati, poiché non esisterebbero più loro, essi, quelli, ma un numero indefinito di vite ciascuna diversa dall’altra, dove l’uno porta con sé un carico di esperienze distinto da quello dell’altro, esattamente come coloro che pretendono di macinarli tutti insieme nella propria testa, per poi, un secondo dopo, emettere un rapido giudizio sommario.
E magari, con una buona dose di ottimismo, potremmo auspicare che all’alba del nuovo giorno, osservando l’ennesima nave stracolma di persone, apparentemente fuse l’una con l’altra in un raffazzonato affresco, dove il colore della pelle è l’unica tonalità che il pennello della nostra immaginazione impoverita è stato in grado di riconoscere, dimostreremo di aver al fine corretto la grammatica del razzismo.
Perché scegliere di impegnarci con qualcuno che ha bisogno del nostro aiuto, non vuol dire essere contro tutti gli altri. E se neppure all’analisi logica riesce l’impresa di farlo comprendere, proviamo con l’umanità.
Proviamo ancora, di nuovo, e ancora di nuovo. Perché finché i Kone di questo mondo non si arrenderanno, be’, forse non dovremo farlo neanche noi.


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