C’era una volta nello Sri Lanka
Storie e Notizie N. 2132
C’era una volta, quindi. Come da titolo, come promesso.
Once upon a time nello Sri Lanka, allora, dando vita all’incipit di una storia che risale a circa 30 anni fa. E non va bene, niente affatto.
Perché certe trame dovrebbero trovar conclusione, ma si legge pace, e alla fine della fiera, o della giornata, quando chiudi gli occhi e ti ritrovi con ciò in cui hai affermato di credere per tutto il tempo, i nodi vengono al pettine e lo sai cos’hai detto o fatto che in qualche modo potrebbe aver contribuito a chiudere quel maledetto sipario o meno.
E non conta dove si svolga questa vicenda, quanto la sentiate lontana nel tempo e nello spazio, perché questo è uno di quei racconti che abbiamo l’obbligo di sentire nostri ovunque e in ogni epoca. Altrimenti, c’è poco di vero e coerente in ciò che diciamo e facciamo. E allora poi non dovremmo chiederci perché ci ritroviamo i fascisti al governo.
Ma veniamo alla storia, già, siamo qui per questo.
Erano gli anni ‘90 e nello Sri Lanka lo sfruttamento della manodopera a basso costo era nel pieno del suo fulgore, così come in tutte le zone del mondo dove le multinazionali avevano trasferito le proprie fabbriche per varie ragioni. Tra tutte, come scrisse Naomi Klein in No Logo – il libro dove sentii per la prima volta parlare del protagonista di questa pagina – gli amministratori delegati, i finanziatori e gli strateghi del marketing avevano ormai capito che il vero bene in loro possesso non erano né gli impianti e tanto meno i prodotti che smerciavano. Era il marchio. Questo vendevano, questo era ciò che li rendeva ricchi e potenti. E un marchio è solo un insieme di simboli, lettere, linee, forme e colori. Non ha anima, non ha cuore, non ha empatia. Figuriamoci se sia in grado di preoccuparsi delle condizioni in cui lavora un essere umano, perfino nel caso in cui si tratti di coloro che lo rendono celebre e lucrativo per i suoi proprietari.
Tuttavia, in ogni luogo e momento storico della vita su questo pianeta c’è sempre qualcuno che non ci sta e coraggiosamente solleva la schiena e il capo da terra per reclamare ciò che è giusto e come tale dovrebbe essere umano. Okay, è sempre a causa di quella sciagurata malattia chiamata utopia, e lo premetto rischiando di rovinare il finale, non porta nulla di buono il più delle volte, ma a mio modesto parere rimango convinto che al contempo l'eventuale sconfitta non è mai colpa di chi si ribella ai soprusi, ma di coloro che restano a guardare senza muovere un dito. Ieri, oggi e domani.
Ciò malgrado, torniamo a ieri. Era il 1989, quando Ranjith Mudiyanselage, un giovane operaio, decise che la misura era colma. Si accorse di un guasto a una macchina dell’azienda in cui lavorava, la Floral Greens. Fece presente la cosa ai suoi superiori ma venne ignorato e una ragazza si ferì a una mano. Il giorno dopo Ranjith protestò con il caposquadra e venne aggredito e ferito anche lui. Fu poi sospeso per due mesi, convocato per un’inchiesta disciplinare e in seguito venne rapito.
Per la sua fidanzata fu una terribile tragedia. Jayanthi Dandeniya, una delle tante lavoratrici sfruttate nelle fabbriche di indumenti, la quale aveva già perso il fratello nello stesso anno per mano degli uomini del Janantha Vimukti Peramuna, il Fronte di Liberazione del Popolo dello Sri Lanka, fu informata cinque giorni dopo del ritrovamento del corpo dell’amato, rinvenuto carbonizzato assieme al suo avvocato all’ingresso di una chiesa.
Nondimeno, non meno coraggiosa, Jayanthi trovò la forza in quell’immane dolore di dedicare la sua vita a difendere i diritti dei lavoratori e soprattutto far rispondere dei propri crimini i colpevoli delle sparizioni e delle uccisioni. Nel 2003, ha ricevuto per il suo impegno il Premio Gwangju per i diritti umani.
Come detto, sono trascorsi circa 30 anni e torniamo di nuovo nello Sri Lanka, anche se potremmo recarci in un’infinità di altri posti nel mondo, per scoprire che vige ancora oggi lo sfruttamento dei lavoratori ed è grave la mancanza di rispetto per i diritti e delle forme di protezione per i lavoratori locali, ovviamente a vantaggio delle multinazionali e dei loro marchi.
Questo è il vero problema con questo tipo di storie, amiche e amici miei. Perché iniziano tutte con c’era una volta e quando arrivi alla fine non trovi quest’ultima. Perché sei costretto a rettificare l’incipit e scrivere c’era una volta e c’è ancora. Ancora e di nuovo ancora. E andrà avanti così finché il numero di coloro che la smetteranno di limitarsi a guardare, ascoltare e leggere da vicino o lontano non sarà sufficiente per sollevare quella pesante penna che scrive solo rosso, come il sangue di chi non c’è più, per incidere sul foglio quella parola benedetta.
Fine.
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