Omissione di umanità

Storie e Notizie N. 2140

C’era una volta l’uomo che ne ha visto morire un altro tra le fiamme, riprendendolo con il cellulare invece di fare qualcosa per salvarlo.
Il terrificante testimone oculare ha in qualche modo confessato più o meno involontariamente e, di conseguenza, pare verrà incriminato.
Ebbene, facciamoci avanti anche noi, allora.
Facciamolo ora, tutti, nessuno si senta innocente qualora seduto di fronte alla telecamera dal lato comodo e spesso insensibile dell’inquadratura.
Prendiamola come un’occasione preziosa, tragica quanto amara.
D’altronde, se ci pensiamo attentamente, non lo sono tutte? Cos’hanno di diverso ciascuna delle volte in cui la mano, o meglio l’occhio umano, che assieme sostengono e alimentano quello digitale, ci hanno permesso di restarcene a guardare indifferenti la drammatica quanto drammatizzata morte, sia in diretta che in differita, il dolore dissezionato e svilito, l’impunita violenza in tutte le sue infinite forme?
La colpa del suddetto unico indiziato è la presenza sul luogo del delitto, su cui la pubblica opinione e la stessa magistratura ora puntano un severo dito indice. Si chiama omissione di soccorso, questo è ciò che dice la legge.
Nondimeno, resto convinto che in casi come questo vi sia qualcos’altro tra le pieghe del reato in oggetto. Come se quest’ultimo non fosse altro che un sintomo, seppur grave, di un’epidemia assai più nefasta.
Si legga pure come un’ormai talmente diffusa e al contempo accettata omissione di umanità, al punto da farsi istituzionale, così come spesso si dice del razzismo o della mancanza di rispetto dei diritti umani.
Oltre a considerare la scrittura la più congeniale modalità di espressione delle mie idee o sensazioni, sono altresì uomo di teatro e una delle cose che ho sempre amato della scena è la sua stessa definizione. Mi riferisco alla drammatizzazione, ovvero l’azione compiuta a distanza per dare vita sul palco a persone o storie, reali o meno, ma che risultino comunque vere per il pubblico.
Ecco, tra i motivi per i quali nonostante una laurea in informatica ho lasciato i social network e sono un fervente critico non di internet, bensì del modo con cui lo stiamo utilizzando come società, oltre a quelli di cui ho già scritto vi è la netta impressione che ciò che ci raccontiamo a vicenda sul web spesso funzioni esattamente all’opposto rispetto al teatro.
Al contrario di ciò che accade seduti in platea di fronte a persone in carne ossa, quando osserviamo le loro immagini, seppur nell’azione in movimento del video, con le voci, le urla e ogni richiamo ai nostri sensi concesso alla tecnologia in nostro possesso, ci siamo ormai convinti che non vi sia nulla di vero. Ci diciamo che in fondo non sta accadendo sul serio, come quando vediamo un film, una serie tv, o anche con i video giochi. I protagonisti muoiono, ma poi fanno il sequel, dai, è una saga, sono solo effetti speciali, e presto tutto ricomincerà con la nuova stagione quotidiana.
Vorrei fare degli esempi recenti, anche se basterebbe ricordare la straordinaria popolarità che hanno ottenuto in questi ultimi vent’anni i video più raccapriccianti e scioccanti, nonché i social network che li usano per tenervi incollati gli utenti.
Senza arrivare a tale livello di efferatezza, considerate il video delle tre ragazze universitarie che prendono in giro dei passeggeri cinesi, come da titolo acchiappa click.
Non voglio entrare nel merito del tema più discusso a riguardo, ovvero se si tratti di razzismo o meno, ma leggendo i vari commenti in giro, mi chiedo: guardare quel video ci aiuta davvero a capire cosa significa trovarsi nei panni di coloro che vengono derisi o anche peggio per il proprio aspetto e le proprie origini ogni santo giorno, e non soltanto in quei pochi secondi di celebrità?
Quando guardiamo l’ennesima auto che sfreccia impazzita nelle vie di una nostra città, ci domandiamo che potremmo vedere quella stessa scena nei panni di uno dei genitori dell’incosciente individuo al volante? Che potrebbe essere nostro marito, nostra madre, una persona a noi cara? Arrivando magari a domandarci quali siano le sue condizioni mentali per arrivare a mettere a rischio la propria incolumità e quella degli altri per ottenere un istante di notorietà.
Nel momento in cui aspettiamo il fotogramma in cui - alla stregua di un trailer cinematografico – vengano finalmente mantenute le promesse del titolo, le minacce con la bottiglia rotta, pensiamo mai che potremmo trovarci al posto del derubato di turno? O, per alcuni, anche nelle vesti dei rapinatori?
In altre parole, focalizzando con la necessaria lucidità che si tratta di persone vere esattamente come noi da questo lato, alternativo solo in apparenza. Sono essere umani a tutti gli effetti coloro che vengono picchiati, abusati, uccisi o anche solo torturati dentro cellulari, tablet e computer. Non è un film o un fumetto horror ciò che stiamo guardando, con cui magari esorcizzare la violenza che abbiamo dentro e uscirne rassicurati perché siamo ancora vivi nonostante il sangue e il dolore altrui.
In effetti lo siamo, questo è indubbio, ma cosa diventiamo subito dopo, quando spegniamo lo schermo? E cosa di ciò che ci rendeva umani stiamo perdendo a forza di sacrificarlo all’altare della viralità per far arricchire gli insaziabili venditori di spazi pubblicitari?

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