Gaza, la macchia sul cuore

Storie e Notizie N. 1616

C’era una volta un essere umano.
Una creatura di settant'anni proprio quest’anno.
Una persona vecchia e stanca.
E non per l’età in sé.
Che non si dica che sia il numero stesso a esprimere giudizi e sentenze.
Perché hanno già fallito le parole e i racconti, l’arte e la politica più o meno virtuosa.
È la storia di una vita sbagliata, questa.
Di una tragedia vivente nata tale e cresciuta ulteriormente nella sua orribile parvenza di normalità.


Mille e novecento quarantotto, il primo compleanno.
Sullo sfondo, laggiù, da qualche parte, possibilmente oltre mare, il quadro prende forma tristemente, sempre troppo simile a se stesso.
In esso, un solco, una linea, un lembo di carne pulsante.
In breve, per i più, una striscia di nome Gaza.
Nell’immagine, a far da contorno all’essenza dell'affresco, le trame il cui segno insiste nel medesimo tratto con ottusa pervicacia, a confermare il detto che l’inferno è più di ogni altra cosa ripetizione.
I razzi di Hamas, già, che siano maledetti, che siano stati davvero lanciati, o meno.
La scia che disegnano sulla volta celeste nel grottesco dipinto.
La via di fuga di quest’ultimo che non esiste, magari ci fosse.

I missili di Israele, che siano altrettanto dannati, che siano mai stati davvero spontanei, o no.
Il fuoco che spargono, le fiamme, il sangue e le macerie.
L'essere umano, un tempo bambino degli anni cinquanta, osserva il quadro e rabbrividisce.
Allora infante, si sforza di dimenticare il prima possibile l’incubo.
Per fortuna esistono distanze e confini, chilometri di pianeta e di coscienza con cui preservare vita, la propria, dalle bombe, le grida, i pianti altrui.
Le lancette corrono, e altre guerre reclamano prime pagine e compassione.
Improvvise invasioni preparate a tavolino e interventi pacificatori dalle conseguenze massacranti, coalizioni ispirate da quintali di barili ricolmi di posticcia solidarietà e occupazioni indebite giustificate a posteriori tramite diplomatiche tangenti.
Terrorismo, un fiume in piena di attentati che scorre negli occhi spaventati di chi deve assolutamente temere l’oggi, ancor prima che il futuro.

Nel mentre l'essere umano, un tempo creatura innocente, diviene adolescente negli anni sessanta.
Il tempo migliore per chi si nutra di sogni.
Il tempo perfetto per coloro che lucrano tutt’ora nel bruciare quelli del prossimo.
Il tempo ideale per confondere gli uni con gli altri.
Odio, e poi pace.
Pace, e quindi di nuovo sangue sulle strade.
Genocidi legalizzati, e ancora pace.
Eppure, il terribile quadro è sempre lì, appeso al muro della nostra memoria.

La striscia che si fa sempre più sottile, i razzi, i missili, grida e lamenti, dissolvenza.
Di empatia e umanità.
Trascorrono altri anni e il nostro si fa giovane adulto e poi solo tale, perlomeno sulla carta.
Nei fatti, si rende volubile fuscello in balia del vento in voga.
Superficiale consumatore di formalità negli anni ottanta e rivenditore delle medesime, riciclate nel decennio successivo.
Eppure, il disegno oltre orizzonte è identico.
La striscia ulteriormente dimagrita come una reclusa costretta a pane e acqua.
I razzi, i missili.
I missili, i razzi.
E in platea il silenzio del pubblico inconsapevolmente pagante.
Un popolo di spettatori distratti dal timore di un

fantomatico bug millenario e dagli artificiali fuochi di un fantascientifico futuro che non è mai arrivato.
Nel duemila l’uomo si fa maturo, nell’età e nel vestito.
Si rende moderno nella modalità di connettersi col mondo e di interagire con le questioni impellenti, ma nella sostanza, riesce sempre a trovare il modo di nascondersi da se stesso.
È l’era in cui le maschere si chiamano profili e avatar, nickname e troll.
È la vita dove le occasioni e le possibilità vengono sciaguratamente compresse in App.

Le piazze e le vie, i prati e gli incontri casuali nel bel mezzo del racconto si frantumano in minuscole briciole di secondi intubati in un coma artificiale definito in modo ingannevole network sociale.
Nondimeno, l’immagine del quadro non è mutata, tranne che per le dimensioni dell’anima di terra e orgoglio stritolata nel mezzo.
La striscia è difatti ancora più sottile, ma questo non ferma i razzi e i missili, alimentati da sete di dolore e distruzione, rabbia e vendetta.
Ciò nonostante, in questa assurda vicenda altri conflitti assassinano generazioni e speranze.
Il numero di esistenze che dall’inizio di questa storia sono obbligate ad abbandonare casa e origini in cerca di un’improbabile solidarietà tra simili si fa incalcolabile.
L’equilibrio assume evidenti contorni di follia nell’accostamento tra le morti innocenti sullo schermo e le risate in poltrona, la sofferenza digitale e il commento irrisorio, la vittima morente in primo piano e il cinismo da tastiera.
Inevitabilmente, la pelle del nostro protagonista si raggrinzisce in rughe impietose, la chioma si fa sparuta e canuta al contempo, i riflessi rallentano e la vista è meno brillante.
Ma il quadro è uguale al giorno in cui il destino ne ha condannato il disegno, mentre l’amara didascalia diventa notizia trascurabile che ormai non viene neppure più letta.
Come se fosse il bollettino medico di un parente fortunatamente lontano affetto da male incurabile, con la segreta speranza che la nera signora metta fine al suo patimento.
La striscia di Gaza, i razzi di Hamas, i missili di Israele.
La guerra di tutte le guerre, la cui pace sarebbe madre di tutte le altre, mancate finora per un soffio.
La vergognosa macchia sul cuore dell’essere umano.
Che siamo tutti noi.