Dovere di unire e libertà di dividere

Storie e Notizie N. 1893

C’era una volta una storia che, per comprenderla al meglio, occorre raccontarla dall’inizio. Ovvero, segnare un punto di partenza che renda l’incipit della stessa esauriente e soprattutto facilitante ogni riflessione a posteriori che sia ragionevole. C’era una volta, quindi, il primo capitolo, che ha luogo nel settembre del 2012, quando il settimanale francese Charlie Hebdo – in concomitanza con l’uscita del discusso film Innocence of Muslims – pubblicò delle vignette in cui veniva ritratto e dileggiato il profeta Maometto con il sedere scoperto. I disegni ebbero grande diffusione, soprattutto grazie alla rete, e ovviamente proteste e minacce non si fecero attendere. Nonostante oltralpe, in tutta Europa e anche in Italia, gli alfieri della libertà di satira si levarono compatti e veementi a difesa del diritto dei vignettisti di motteggiare chicchessia, l’allora ministro degli esteri francese Laurent Fabius criticò il tempismo della rivista, accusando quest’ultima di gettare benzina nel fuoco. Per quanto mi riguarda, nonostante il mio sostegno alla libertà di espressione in ogni forma, mi ritrovai d’accordo con il ministro. Ne scrissi su questo sito sottolineando peraltro il fatto che, talvolta, il target da umiliare “satiricamente” sembra venga scelto non per affermare il proprio coraggio o la personale libertà creativa, ma piuttosto perché più il bersaglio risulta rovente e maggiore sarà il ritorno di immagine. Letteralmente, in questo caso. Anche perché ti trovi dal lato della barricata dove in molti non aspettano che ridere di ciò che è sacro per gli altri.

Tre anni dopo, ecco il secondo capitolo, il quale si svolse il sette gennaio del 2015, quando ci fu l’attentato alla sede della rivista nel quale morirono dodici persone, dieci delle quali facenti parte della redazione. Senza entrare nel dettaglio della tragedia, ricordiamo che gli autori della strage furono individuati nei fratelli Saïd Kouachi e Chérif Kouachi, cittadini franco-algerini di Gennevilliers, e che l’attentato fu rivendicato dal gruppo terroristico Al-Qāʿida nella Penisola Arabica, al quale gli stessi assassini si dichiaravano affiliati. L’undici gennaio a Parigi andò in scena la manifestazione “Je suis Charlie”, imitata anche nel resto d’Europa e pure da noi. Inutile dire che lo slogan divenne virale su internet, tra avatar, meme e quant’altro venga sfruttato per sentirsi uniti per qualcosa di giusto. Non contro, ma uniti per. Ovvero, mi auguro ancora oggi, non contro un miliardo e ottocento milioni di persone, le quali, con i due – ripeto – due assassini hanno in comune soltanto il fatto di aver fede nella stessa religione. Per giunta, in altrettante diverse modalità, visto che ciascuno di noi mette in pratica ciò in cui crede in maniera differente. Uniti, ripeto. Perché sentirsi e più che mai essere per davvero uniti, trovando punti comuni, realizzando ponti e non muri tra le genti, soprattutto le più lontane, è indubbiamente lo scopo principale da non perdere mai di vista. È il vero cuore dell’orizzonte comune, che dovremmo aver tutti innanzi a noi quotidianamente come una bussola. Giammai agendo all’inverso, alimentando divisioni, conflitti e separazioni come ha giustamente fatto notare ieri lo scrittore Marco Politi. L’analisi di quest’ultimo mi trova pienamente d’accordo, rivolta nella fattispecie al terzo capitolo di questo racconto. Mi riferisco all’omicidio di Samuel Paty del 16 ottobre scorso - rispettivamente otto e cinque anni dopo la pubblicazione delle famigerate vignette e l’attentato alla sede della rivista - da parte di Abdoullakh Abouyedovich Anzorov, un rifugiato musulmano di origine russa di 18 anni di origine cecena. Come molti sapranno, Paty era un insegnante che aveva mostrato le suddette controverse immagini ai suoi studenti tenendo un corso giustappunto sulla libertà di espressione. Ciò che molti giornali nostrani però non approfondiscono sono tutti i fatti che hanno probabilmente condotto al barbaro assassinio del professore, secondo i quali nei giorni precedenti – uno studente pare sostenga che la cosa andasse avanti da anni – c’erano già stati episodi di intolleranza ai suoi tentativi di far riflettere su un tema così delicato e urgente. A quanto si legge sui quotidiani in questi giorni, ciò che conta, che emerge e sopravvive in superficie, tralasciando ogni approfondimento che potrebbe dar vigore e sostanza a qualsivoglia riflessione, sono l’efferatezza e più che mai la modalità dell’uccisione - la decapitazione – e che l’omicida abbia gridato Allah akbar. Immagino le parole dell’implorante cronista di turno in procinto di buttar giù l’articolo sul drammatico evento: “L’ha detto? Dimmi che l’ha detto, ti prego, fammelo scrivere, ho famiglia…” Allo stesso modo giocano a vantaggio della popolarità del pezzo di turno le rivendicazioni di matrice islamista, e non islamica, che significa altro. Il che non vuol dire diretta responsabilità, ovvero concreta pianificazione e organizzazione dell’attentato, ma solo una sorta di macabro bollino di qualità, sotto forma di ispirazione a uccidere, punto. Senza ottenere tanto, il risultato minimo è nutrire il dissenso tra le popolazioni da un emisfero all’altro. Giammai unire, dando vita a ideali strade lastricate di comprensione e ascolto reciproco. Domenica 18 ottobre ci sono state manifestazioni in tutta la nazione transalpina per ricordare e celebrare l’insegnante morto, e il 21 il governo di Macron ha deciso di trasformare le esequie di Paty in un omaggio nazionale, identificandolo come volto della repubblica francese, cito testualmente, e puntando il dito contro i nemici, ovvero i barbari. Nello stesso tempo, malgrado il criminale reo confesso dell’atroce omicidio sia uno e uno solo, ancora una volta è ripartito sul web a folle velocità il treno delle facili quanto comode generalizzazioni (per non dire di peggio), dell’islam radicale e di quello moderato, che però non esiste, ma se c’è dovrebbe condannare gli attentati (in realtà avviene ogni volta), e via blaterando di cose che si conoscono poco o si ignorano del tutto. E cosa fanno, quelli di Charlie Hebdo? I nostri non mancano mai di difendere la loro libertà d’espressione e di satira battendo il ferro quando ha il calore di una stella gigante rossa che esplode, più che semplicemente caldo. Difatti, il 28 ottobre scelgono per la copertina il presidente della Turchia nell’atto di sollevare la gonna di una donna col velo, mettendone a nudo il didietro. Il missile centra il bersaglio, perché a stretto giro di posta, dall’altra parte del monitor il “mite” Erdogan non aspettava altro e a sua volta lancia i suoi strali verso il settimanale e per conoscenza al governo francese. Nel giro di poche ore, arriviamo al quarto capitolo di questa sciagurata vicenda: un uomo è entrato nella cattedrale di Notre-Dame de l’Assomption a Nizza e ha ucciso tre persone. Sui media si parla di nuovo ovunque della decapitazione di una delle due donne assassinate e che l’uomo pare abbia gridato il fatidico, quanto atteso, Allah akbar, come conferma il sindaco di Nizza, il quale tira in ballo addirittura l'islamofascimo. La storia – solo per ora, ahi noi – si conclude qua. Ognuno è libero, oltre che di esprimersi e di scatenare la propria vena satirica contro chiunque, di trarre conclusioni a margine. Dal canto mio, lascio qui una semplice osservazione che si fa largo tra le molte che mi attraversano: gli attentati terroristici, di qualsivoglia matrice, ispirazione o reale ideazione, sono fatti per dividere, giammai unire. E, qualora diano l’impressione del contrario, la Storia con l’iniziale maiuscola – compresa quella che va dal 2012 a oggi – ci insegna che quell’apparente farsi uno nelle piazze più o meno virtuali non è altro che l’ulteriore irrigidimento di una parte del mondo contro l’altra, in breve l’antico e sempre attuale noi e loro. La nostra migliore risposta a tali terribili manifestazioni dell’umana disumanità consiste, a mio modesto parere, in ogni tempo e luogo in un solo gesto: insistere ancora di più, che fa rima non a caso con resistere, nella costruzione di un’alleanza tra le diversità, puntando sempre di più sull’infinità di variopinti e multiformi tasselli che ci uniscono, rispetto ai trascurabili dettagli che ci dividono.

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É uscito il mio nuovo libro: A morte i razzisti