La malattia dell’uomo bianco

Storie e Notizie N. 1954

Leggo della professoressa universitaria Carrie Bourassa, specializzata nelle problematiche di salute delle popolazioni indigene e in questi giorni sotto indagine della CBC – il servizio pubblico radiotelevisivo canadese – per essersi falsamente spacciata come discendente dei nativi e addirittura presentatasi in pubblico con gli abiti tradizionali, auto nominandosi Morning Star Bear, Orso della Stella del Mattino.

Rifletto su tale imbarazzante, ma anche assai significativa vicenda e mi ricordo – o a essere onesto me la invento, visto che siamo in tema di panzane – di un’antica fiaba indigena. Ma della mia tribù, però, così non millanto niente e nessuno direttamente.

La malattia dell’uomo bianco

C’era una volta l’uomo bianco. Quello che si definiva, e in molti lo fanno ancora, come tale. Lo faceva tempo addietro, malgrado in tanti persistano tutt’oggi, per distinguersi dagli altri, che ai suoi occhi bianchi non erano.

Come quelli della mia tribù, per esempio, che ci chiamavano uomini neri. Tuttavia, quand’ero ancora un bambino, la cosa mi lasciava perplesso, perché specchiandomi nell’acqua del fiume osservavo con attenzione la mia pelle ma essa non pareva affatto nera. Di sicuro non nera come la notte fonda, quando le stelle sono in sciopero contro il sole e la luna, giacché questi ultimi persistono a non mostrarsi umili nei loro confronti, ammettendo che per ogni astro del cielo la quantità di luce non dipende dalla propria grandezza o dall’effettiva luminosità, bensì da quale distanza si ha il dono di ammirare entrambe.

Ebbene, in quei giorni contemplavo il riflesso del mio volto di continuo e ogni volta arrivavo alla medesima conclusione: io non sono nero perché la mia pelle è marrone. Così come quella di mio padre e mia madre, che poverina ci aveva lasciati anni prima, di mio nonno, i miei zii e anche mia cugina, guarda un po’ che ti dico. Tutta la tribù, se proprio vogliamo dirla tutta. Tranne lo sciamano, che tendeva al viola, ma la sua era una bruciatura, lo sapevamo tutti, perché diceva che il fuoco gli avrebbe obbedito e si è scottato di brutto.

Così, convinto delle mie idee andai a parlare con mio padre.

“Papà”, dissi arrivando subito al punto. “Perché l’uomo bianco ci chiama uomini neri se siamo marroni?”

“Non lo so”, rispose il babbo, ed entrambi andammo dal nonno.

“Padre”, chiese il mio papà. “Perché l’uomo bianco ci definisce neri se siamo marroni?”

“E che ne so?” ribatté il vecchio di casa, e tutti e tre ci recammo da mia nonna, che quando nessuno sa nulla vuol dire che la risposta alla domanda ce l’ha lei.

“Nonnina”, feci io, auto eleggendomi portavoce di ben tre generazioni di ignoranza. “Perché siamo neri per l’uomo bianco? La verità è che siamo marroni…”

“Perché neanche lui è davvero bianco, bensì rosa chiaro.”

Dopo qualche istante di spiazzato silenzio non potemmo che darci un corale buffetto sul capo per non esserci arrivati da soli.

“Già, nonna…”

“Hai ragione, mamma…”

“Giusto, moglie…”

“E perché lo fa?” fu la mia logica, seguente domanda.

“Perché l'uomo bianco è malato.”

“Sul serio?” chiese conferma mio padre.

“L’avevo detto io”, si prese qualche infondato merito mio nonno.

“Di che malattia si tratta?” domandai preoccupato più se fosse contagiosa che della salute dei bianchi.

“È un virus terribile che aggredisce il cervello e il cuore, che ti impedisce di capire chi sei per davvero e di conseguenza chi sono tutti gli altri.”

“E possiamo infettarci anche noi?” la incalzai.

“Certo. Può capitare a tutti. La malattia si diffonde in poco tempo ed è anche ereditaria. È una piaga terribile ed è estremamente pericolosa, perché se non sei capace di riconoscerti neppure guardando la tua immagine riflessa, potresti credere di essere chiunque, perfino qualcosa che non ha più nulla di umano.”

“Ed è curabile?” chiesi anche a nome di mio padre e mio nonno.

“Sì, ma ci vogliono tre medicine in una”, rispose mia nonna, prima di congedarci, perché era stanca e aveva bisogno di riposarsi. “La prima è il tempo, tutto quello che ti occorre per prestare la giusta attenzione al prossimo invece che a te stesso. La seconda è il coraggio di fissare i tuoi occhi nei suoi, riuscendo a guardare solo ciò che si nasconde all’interno a discapito di tutto ciò che vi è attorno. La terza è la memoria, quella che ti permetterà di rammentare la fondamentale scoperta fatta in quello scambio di luce tra anime confuse quando distoglierai lo sguardo, per conservare, proteggere e approfittare di quel benedetto ricordo tutte le volte che la vita si farà difficile per te.”

Da quella volta cammino senza fretta, do immenso valore a ogni incontro con qualcuno che mi sembra differente e, soprattutto, faccio tutti i giorni flessioni e ogni tipo di ginnastica con i miei occhi, affinché siano sempre elastici, robusti e capaci di farvi entrare qualsiasi storia vivente la natura vorrà raccontarmi.

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Il mio ultimo libro: A morte i razzisti