Bambini sospesi

Storie e Notizie N. 2230

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Leggo la notizia del bambino di sei anni che è stato riammesso a scuola dopo essere stato sospeso per 17 giorni.
Clicco sul titolo e scopro il resto, ovvero che il nostro è stato “allontanato dalla comunità scolastica” perché se si è all’interno di quest’ultima – ha spiegato il dirigente dell’istituto - “bisogna imparare le regole e rispettare il prossimo”.
Aspetto che a mio modesto parere dovrebbe fare tutta la differenza del mondo, pare che al bambino – ripeto di soli sei anni – sia stato diagnosticato un “disturbo da deficit di attenzione con iperattività (Adhd) di tipo combinato, associata a marcata difficoltà nella regolazione degli aspetti comportamentali e aggressivi”.
Ora non voglio star qui a sparare sentenze sull’operato della scuola in questione, l’istituto Melone di Ladispoli, la cui direzione ha peraltro tenuto a sottolineare l’assenza dei genitori nello sforzo di coordinare le decisioni da prendere, ma vorrei solo raccontare l’ennesima storia, stavolta ulteriormente ispirata dalla realtà, la mia.
Vorrei cominciare con il dire che da trent’anni a questa parte capisco perfettamente le difficoltà di chi entri in una stanza con il compito di accompagnare un gruppo di persone in un percorso di ogni tipo, istruttivo, educativo e nel mio caso anche terapeutico.
Riconfermo ciò che ho scritto più volte, che non si può e non si deve assolutamente generalizzare quando si parla di disturbi e disagi familiari, ma non posso fare a meno di ripensare alla storia di cui sopra e soprattutto alle vicende umane in cui mi sono imbattuto fino a oggi, compreso ciò che è accaduto nel pomeriggio di ieri.
Perché il sottoscritto è uno di quei molti che i “bambini sospesi” e “allontanati dalla comunità scolastica” finisce per vederli entrare nella sua stanza quando le conseguenze di tutto ciò che è stato fatto in precedenza hanno lasciato ormai un segno indelebile.
Che so, il bambino di cui sopra – qualora magari si trasferisca nella capitale – tra una decina d’anni o anche meno potrebbe capitare in uno dei laboratori che conduco. Spero vivamente di no, sotto certi aspetti, perché potrebbe voler dire che le cose siano  migliorate. Ma in caso contrario, la differenza per lui e per gli altri già presenti è che spesso e volentieri si ritroverebbe assieme a un intero gruppo con la medesima difficoltà a “imparare le regole e rispettare il prossimo”, per non parlare di tutto il resto.
 Ebbene, nel mio lavoro spesso ciò accade dopo aver faticato come un mulo nel cercare di far sì che ciascuno dei partecipanti sia in grado minimamente di vedere l’altro e tener conto delle sue esigenze. E allora sono costretto a ricominciare ogni volta da capo. Perché anche l’ultimo arrivato necessita del medesimo rispetto da me. Qualora il comportamento di un membro del gruppo, per usare un eufemismo, si dimostri meno gestibile – il che è tutto dire, nel mio campo –, non nego che una parte del sottoscritto mi implori di “allontanarlo dalla comunità”. Qualcuno potrebbe ragionevolmente obiettare a questo punto che non è compito della scuola intervenire sui disturbi in sé, ma l’intervento di espulsione della scuola in oggetto è stato fatto in relazione alle regole e al mancato rispetto di queste ultime e del prossimo. Be’, io non posso farlo perché non voglio. E non voglio perché mi ricordo a ogni santa occasione che è stato già fatto in precedenza. Dalla famiglia, dalla scuola, dalla società intera e spesso anche da tutte quante.
Proprio ieri una ragazzina dolcissima di quindici anni dal carattere incredibilmente esuberante e altalenante piangendo si è sfogata con me di quanto si senta sola e abbandonata da tutto e tutti, istituzioni, amici, e anche la famiglia, a cominciare da suo padre, che quando gli gira non si fa sentire per settimane e si dimentica  di venirla a prendere alla fine del laboratorio. Nel frattempo il resto del ragazzi era fuori in attesa di rientrare dopo la pausa, ciascuno con la propria insopprimibile esigenza di essere visto, ascoltato e apprezzato, e la contestuale incapacità a far lo stesso con gli altri.
Alla fine della giornata ero piuttosto stanco, ma non posso fare a meno di ricordare in momenti come questo che tempo addietro, quand’ero più giovane, mi lamentai con una collega ben più esperta del sottoscritto del fatto che sembrava che i soggetti peggiori in fatto di maleducazione e aggressività finissero nel mio gruppo. Be’, lei mi rispose con grande semplicità ciò che credo sia vero ancora oggi e penso sarà sempre così: “Che tu sia un genitore, un insegnante o un operatore che fa il nostro lavoro, non puoi pretendere che nella tua vita entrino solo i ragazzi bravi e buoni. Altrimenti, tu a cosa servi?”

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