Donne che salvano donne
Storie e Notizie N. 2257
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Meenakshi Gupta è cieca fin dalla nascita. Eppure può identificare ciò che sfugge a molti pazienti e medici specializzati: i grumi più piccoli nel seno di una donna che potrebbero essere maligni.
È una delle trenta donne non vedenti provenienti dall’India formatasi come parte di un progetto globale chiamato “Discovering Hands”.
Gupta, che ha 31 anni, ha lavorato negli ultimi due come medico tattile legale presso l’ospedale Medanta, nella città indiana settentrionale di Gurgaon.
Introdotto in India nel 2017, il programma fa ora parte dei maggiori ospedali nelle principali città indiane: Bengaluru, Varanasi, Gurugram e Delhi. In un Paese in cui l'attrezzatura per eseguire mammografie è scarsa, l'esperienza di queste esaminatrici è fondamentale.
Secondo il NAB, India Center for Blind Women and Disability Studies, l’India ospita circa 15 milioni di donne non vedenti e ipovedenti, di cui solo il 5% è in grado di guadagnarsi da vivere.
"Il cancro al seno non è un killer finché il tumore è presente solo nel tessuto mammario", spiega il dottor Frank Hoffmann, il ginecologo tedesco che ha avuto l'idea di allenare le donne cieche e ipovedenti per effettuare esami tattili nel 2006. “Se riesci a trovare il tumore nel più presto possibile, il paziente si riprenderà nel 90% dei casi”.
C’erano una volta donne che salvano donne.
C’era una volta lei come tante, privata della vista, ma solo di quest’ultima.
Ed è tutto lì il senso di ogni storia.
Nella capacità di trovarlo in quel che resta, una volta rimasti al buio.
I miei occhi non conoscono la luce, ella dice.
La mia mente la crea.
Le mie mani non vedono.
Ma curano e donano futuro.
Il mio sguardo non cattura le immagini.
La mia fantasia ha imparato a disegnarne i dettagli che contano.
Le mani sembrano annaspare nel vuoto.
Eppure, quando per molti tutto pare perduto, le mie dita cambiano il finale del racconto.
Vedere è solo un’idea che non riuscirò mai a capire fino in fondo. Ma intuire il valore di ciò che abbiamo davanti richiede sempre più di un senso.
E in più delle occasioni, a suggerirti la risposta che manca, è quello che tra i cinque non t’aspetti.
È l’abbraccio che rivela affetto qualora le parole non riescano nell’impresa.
È la pacca sulla spalla che confida una familiarità taciuta fino a quel momento.
È la mano, già, che sfiora una guancia e palesa un sentimento malgrado il cervello, con clamorosa ingenuità, abbia fatto di tutto per tenerlo segreto.
C’era una volta quella che chiamiamo disabilità.
Come di chi non è in grado di osservare ciò di cui ci riempiamo gli occhi tutti i giorni, convinti da chi racconta la Storia con l’iniziale in voga che sia tutto quello che ci meritiamo.
Nel mentre, c’era una volta lei, tra le donne che curano donne.
E salvano queste ultime, alimentando al contempo l’unica luce che si dimostri in grado di illuminare tutto e tutti, in ogni epoca e luogo, da un istante all’altro.
Si chiama speranza, credo, ma forse mi sbaglio.