Giù nel pozzo

Storie e Notizie N. 1633

C’era una volta un pozzo.
Profondo, assai profondo, talmente profondo, che non si riesce a veder buio, anziché luce, perché là sotto ha raggiunto tonalità talmente oscure che nemmeno il tanto abusato nero può esser sufficiente a rendergli merito.
Nel pozzo c’è ora un povero bambino di due anni, per la cronaca.
Il quale, come il piccolo Alfredino, per chi se lo ricorda, ha la vita appesa a un filo intessuto della stessa sostanza della quale è composta la nostra perseveranza nel salvare il prossimo.
Mi riferisco a una speciale corda di inestimabile valore, di cui dovremmo aver cura quotidianamente, come fanno molti uomini con le proprie auto.
Seguendo la banale metafora, dovremmo controllarne l’olio e l’acqua, la pressione delle gomme e le condizioni della carrozzeria con puntualità immancabile.
Perché tutti, prima o poi, ci ritroviamo dal capo debole, tra le due estremità.
Io salvo te che salvi me, che salva lui, che salva lei, che salva tutti, ci deve esser scritto sugli anelli di questa allegorica solidale catena.
Il nostro problema, della sola specie al mondo a cui va ricordato a ogni sorgere del sole di esser giustappunto specie, e non solitario individuo a discapito di tutti gli altri, è che quel pozzo lo abbiamo trascurato come se fosse cosa normale.
Come se tutte le buche su cui indifferenti camminiamo fossero ineluttabili, semplici capricci del destino, o addirittura qualcosa di giusto.
In altre parole, come se i vuoti del vivere non fossero altro che indispensabili comprimari dei pieni.
Incredibile, vero?
Si potrebbe perfino arrivare a pensare che i molti poveri siano un male necessario, al fin di garantire il favorevole tenore dei pochi danarosi.
Sì, lo so, mi rendo conto che sarebbe paradossale, un siffatto mondo…
Sopratutto riflettendo su un particolare tutt’altro che trascurabile.
Quel pozzo l’abbiamo costruito noi.
Oppure, l’abbiamo solo dimenticato alle spalle, rincorrendo come masse di somari la solita carota dorata.
In quel pozzo c’è ora un bambino che ha bisogno di aiuto, e allora forza, coraggio.
E che il cielo, o chi per lui, lo riporti alla luce sano e salvo.




Tuttavia, molto altro è precipitato senza che nessuno se ne preoccupasse.
Anzi, c’è gente alla guida del mondo che in questo momento ne fa nientemeno che un vanto.
Mentre là sotto, nel buio che ha dimostrato con i fatti di superare a ogni metro più in basso ulteriori limiti di indecenza e disumanità, ci è finita la mera empatia verso i nostri simili. Che tali più non sono, bensì qualcos’altro, dove la parola altro è sufficiente ad autorizzarci a voltare le spalle e continuare per la nostra strada.
Là sotto ci è caduta anche la capacità di ricordare, che non è una delle tante azioni che diamo per scontate, come cibarsi qualora la fame lo esiga e dormire, allorché il sonno prenda la meglio su di noi.
Perché la memoria è alla stregua di una scatola che cresce con noi in ogni istante di vita, ma è come inerte, da sola. Ci vuole il giusto tempo, la migliore calma e l’amore per il passato quanto quello per il futuro per aprirla e trovare le risposte alle domande insolute del presente.
Ma più di ogni altra cosa, là sotto, malgrado con un tonfo assordante, ci è finita la nostra propensione a indignarci innanzi alle ingiustizie e alle prepotenze. Come se le nostre orecchie fossero state infettate dal medesimo virus che ha colpito il cuore, non ce ne siamo neppure accorti.
E, come è stato nei secoli trascorsi, di fronte al momento in cui tali atrocità verranno pubblicamente rese note, siamo pronti a rispondere che non ne sapevamo nulla e che nessuno ci aveva informati della cosa.
C’era una volta un pozzo, infine.
Un fosso che si allarga a vista d’occhio.
Il quale, se non faremo qualcosa a riguardo, inghiottirà anche noi.
Finché non ci sarà più qualcuno lassù, a tirarci fuori.


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