Il sangue e l’acqua dei figli della Polonia
Storie e Notizie N. 1960
Di una cosa possiamo esser certi tutti, ovunque, in ogni luogo e tempo: ciascuno di noi è figlio. Lo è stato, perlomeno, e alcuni fortunati lo sono ancora. Non, banalmente, coloro i quali hanno i propri genitori, o anche solo uno, in vita. Mi riferisco a quelli che saggiamente, ma tu leggi pure umanamente, non hanno dimenticato, giacché persiste in loro il ricordo e la conseguente, preziosa consapevolezza, di un qualcosa che va al di là del semplice aneddoto divertente o del tutto spiacevole legato alla foto di famiglia appesa in salotto.
Non so se abbia un nome. Forse ne ha tanti, troppi. Su quest'umile paginetta ribattezziamola responsabilità del sangue che immeritatamente scorre nelle vene. Responsabilità, in breve.
Prendi a mero titolo di esempio i soldati polacchi che insieme alla muraglia di filo spinato si ergono come stolidi baluardi a difesa del patrio suolo, prima di colpire con gli idranti le anime illegali che tentano di superare il confine tra la Bielorussia e un’illusione di sopravvivenza.
Procedi oltre e considera gli uomini celati in quelle divise. Immagina di far silenzio dentro di te e ascoltarli, come se fossero delle narrazioni viventi, ovvero delle speciali partiture musicali. Soffermati sui rintocchi del cuore, il ritmo del respiro, e soprattutto lo scorrere del sangue, di nuovo lui, come se fosse un torrente ben più grande e antico di quel che può sembrare a un occhio ossessionato da ciò che si ha innanzi.
Ora, come se ti trovassi in mezzo a loro, trascura per un istante la follia del gesto che li vede gettare preziosa quanto gelida acqua sulle membra stanche, arrabbiate e impaurite delle genti più indifese al mondo, e voltati. Allarga lo sguardo e osserva all’orizzonte il corso a ritroso di quel rubicondo fiume sino alla foce. Tale viaggio attraversa la terra che essi si illudono di proteggere, oltre che possedere, ma va ben oltre. Mi riferisco alla diaspora che i padri e i nonni e ogni avo di quegli stessi uomini travestiti da soldati hanno conosciuto, che nella lingua moderna, secondo il più grottesco dei paradossi, si scrive allo stesso modo della nazione in latino e in italiano: Polonia.
La migrazione polacca in ogni luogo della terra è ancora oggi tra le più numerose al mondo. Ben venti milioni di polacchi sono stati costretti a lasciare il paese più o meno volontariamente. Espulsi. Fuggiti. Esiliati. Traducendo, lontano da casa, per sempre, in cerca di un posto dove vivere. Per ragioni economiche e politiche, a causa di persecuzioni etniche e religiose in tanti hanno oltrepassato i confini nella direzione opposta, mentre a milioni, rei di esseri ebrei, sono stati assassinati durante l’Olocausto. Altri sono stati meno sfortunati e si sono stabiliti altrove, dove oggi vivono i loro discendenti. Ancora dei figli, già. Parola che non può fare a meno di ritornare. Alla mente, se non al cuore.
Non ultima vi è la grande emigrazione di oltre due milioni di polacchi in seguito al crollo del socialismo del’89.
Chissà, magari anche solo uno di quegli umani camuffati da tutto l’opposto, determinati a obbedire alla pazzia, più che a un ordine razionale, come è già accaduto proprio in quella stessa nazione, ha avuto un padre o un madre che ha dovuto lasciare ogni cosa e partire.
Si dice che il sangue non sia acqua, ma in questi giorni assurdi, quando la mente si offusca e le membra del corpo si irrigidiscono, sino a congelare ogni cosa all’interno, a cominciare dalla coscienza, si finisce per confonderli e a trasformare l’uno nell’altra.
Ecco, torniamo insieme nel nostro plotone e osserva i folli guerrieri del nulla mentre distruggono tutto il sangue versato e sopravvissuto di cui sono prole, pensando di poter frenare la lotta per la vita innaffiandola con il pianto dei propri avi...
Iscriviti per ricevere la Newsletter per Email
Il mio ultimo libro: A morte i razzisti